Harlem Shake: genesi e apocalisse (II)

Convincente o meno, la tesi di M. E. Jones avrebbe avuto almeno il pregio di essere una proposta impegnata. Ma sarebbe stato tutto troppo bello.

Quando oggi parliamo di harlem shake, non ci riferiamo infatti a G. Dep., né alla cultura afroamericana, né alla rivoluzione culturale anti-cattolica americana e via dicendo. Ci riferiamo invece alla recente canzone “Harlem Shake” del dj Baauer, perfetto esempio di fidget house (ennesimo parto del detonato cespite house).

 Successivamente sulla base de pezzo di Baauer un diciannovenne Filthy Frank avrebbe creato il video “Do the Harlem Shake”, felice esempio di subcultura giovanile che ha contagiato in men che non si dica mezzo orbe.

E qui non c’è Jones che tenga. I primi a non riconoscersi in questa moda giovanile sono proprio quei black che dell’harlem shake originale hanno fatto la loro passione e il loro cavallo di battaglia.

D’altra parte il fenomeno merita due appunti.

Anzi tre.

Il fatto che, a quanto pare, non si tratti di un prodotto pensato a tavolino, ma di una realtà affermatasi dal basso ci consola a metà. Anzi, mi allerta.

Primo, perché significa che il germe della degenerazione ha attecchito a tal punto, che un qualsiasi teenager può portare già in sé i principi. E ha tutti gli strumenti per diffonderli.

Secondo, perché tanta banalità e volgarità trovano subito milioni di riscontri positivi nel mondo: vuol dire che la gioventù è sintonizzata sugli stessi squallidi canali.

Terzo, perché appunto di banalità si tratta. Cioè di una banalizzazione di ciò che è cattivo prima che stupido, e stupido prima che cattivo. In questo senso c’è da rimpiangere le stagioni di lotta culturale alla M. E. Jones. Niente da fare, ormai siamo entrati in una nuova stagione, un girone più giù.

Un secondo appunto riguarda i contenuti. Negativi al di là della loro intenzionalità ricreativa (ma perché: il male è mai stato capace di ricreare alcunché?)

I protagonisti appaiono in maschera: mostri, animali, cartoon, fetish, aggregati bionici. Impossibile non pensare al processo di de-umanizzazione che già tocca la società adulta in tanti suoi aspetti.

I gesti: per lo più l’alternarsi di imitazioni di ubriachi o di movenze sessuali. È il tripudio delle passioni. È il fonte della cultura rivoluzionaria, direbbe Plinio Correa de Oliveira (Rivoluzione e Contro-rivoluzione, Sugarco 2009).

Infine, in alcune sue evoluzioni più recenti, questa celebrazione banalizzata del nichilismo culturale giovanile, autentica carnevalizzazione del quotidiano, torna a citare la sua più dotta progenitrice, la medievale e sacrale Totentanz.

Come in questa lo scheletro della morte “danzava” tra la gente del mondo – ricchi e poveri, chierici e laici, giovani e vecchi – fino a condurli tutti con sé nel proprio regno senza vita; così nell’harlem shake il video sovente si apre con un solo personaggio mascherato che inizia a “danzare” in un gruppo di giovani noncuranti, salvo poi, al mutare della scena, averli trascinati tutti con sé nel ballo lascivo.

 

Ma dai, sono ragazzate. A che pro indignarsi?

E infatti io non mi indigno. Semplicemente prendo nota.

Per esempio prendo nota di quegli oratori in cui ragazzi e animatori si sfidano a chi realizza l’harlem shake più bello. Ovviamente epurato dei suoi riferimenti più triviali. Ovviamente.

Non mi indigno, ma mi dispiaccio. Il mio sogno – che poi non era il mio – era quello che la gioventù cattolica traghettasse il mondo verso lo splendore di Cristo. Non che si mettesse al traino del sub-culturame post-cattolico di tendenza, subendone il pensiero e i gesti.

E sia. Speriamo che, nonostante questo, in qualche modo si riesca a “get things right between ourself and God”.

Let’s get it.

Quando si faceva sesso

Apparso su Campari & De Maistre.

Il sesso. Un’esperienza che mi manca. Parliamone.

Il sesso occupa nella Bibbia posizioni non trascurabili, da quel Protovangelo di Genesi (ingiustamente) collegato alla prima violazione sessuale della storia; agli imbarazzanti fatti dei Patriarchi (le due mogli rifilate con l’inganno a Giacobbe, lo stupro di Dina, l’onta di Davide su Betsabea); risalendo fino alle accuse di incesto registrate nella lettera di san Paolo ai Corinti. Questi sono casi di azione peccaminosa (materiale o formale), in cui la questione sessuale viene letta alla luce del mistero di Dio. E in mezzo ci sono le due gemme: il poema erotico-spirituale del Cantico dei Cantici, e il dono casto nel sacrificio del Signore Gesù Eterno Sacerdote con l’invenzione del celibato religioso.

Più o meno nello stesso periodo, incontriamo casi di prostituzione sacra – severamente condannata dalle Scritture – in cui sacerdotesse offrivano il loro corpo prostituendosi per gli adepti di culti idolatrici pagani.

Nell’Era Cristiana in Occidente si diffondono culti esoterici – di estrazione extra-europea o pre-cristiana, ma anche di ispirazione gnostica e anti-cristiana – in cui viene perpetuato l’esercizio sessuale e orgiastico a scopo cultuale. Credo si possa dire che anche i sabba delle streghe rientrassero in questa cornice (col che si spiega praticamente uno dei maggiori capi d’accusa alle streghe medesime: l’aborto procurato).

Beninteso, queste forme materialmente non si distinguono da orge fatte e finite, al punto che un personaggio di Vincenzo Consolo, il Calò di Nottetempo, casa per casa, dovendo riferire sui riti di magia sessuale del satanista Crowley a Cefalù esordiva così: “Dunque, ’ccellenza. Con rispetto parlando, fottono”.

Formalmente però va riconosciuta un’intenzione profonda a questi atti. In essi si giocava con la vita e il suo principio. Trattandosi di pratiche acristiane o anticristiane la concezione di vita evocata implicava ove l’oltrepassamento della Legge, ove il disprezzo (paradossale) della carne, ove concetti eccentrici di aldilà. Il disprezzo della carne si lega ai miti gnostici del Graal, ove il Sangue di Cristo è in realtà la sua discendenza umana, nata da atto sessuale con la Maddalena. L’antinomismo si incontra – tral’altro – nella pratica ad ispirazione messianistica del “rito delle luci”: un incontro di persone che culminava nell’oscuramento della stanza, cui seguiva uno scatenamento sessuale in cui – gioco forza – non si distinguevano più sessi né parentele né età. E il resto ve lo lascio immaginare.

Ma una simile situazione si incontra anche nelle messe nere: il primo caso di satanismo vien fatto risalire a un “gruppo attivo, ai margini della corte del re di Francia Luigi XIV, intorno a Catherine La Voisin”. Anche qui, dietro la pratica delle messe nere, è facile trovare una cooptazione di belle donne, sesso dissoluto e aborti (molti casi di “sacrifici di bambini”possono esser ricondotti a ciò).

Dunque sesso libero, trasgressione, sodomia, incesto, pederastia, aborti e infezioni sono compagni di sempre del genere umano. Ma nel tempo sta cambiando la tensione ideale con cui essi sono vissuti: al puro peccato e al rito esoterico di origine quasi ancestrale, sono seguiti l’atto volutamente blasfemo e quello ereticizzante dei tempi medievali e moderni, fino ad arrivare al 1968.

Nel ‘68 la liberalizzazione sessuale si fonde con rivendicazioni ideologiche e culturali, teorie sociali edonistiche, propaganda di regime e utopia del superamento delle gabbie metafisiche classiche.

Meno di vent’anni dopo, del progetto culturale iper-strutturato restano ben poche tracce. Il sesso diviene esercizio libero di piacere per il piacere, o l’anticipazione concreta di un amore da sogno però incapace di reggere alla durata e all’attesa del patto matrimoniale. Né muta lo stuolo di aberrità e malattie che da sempre si porta appresso, con qualche aggiornamento sul tema, come l’AIDS.

Ora, mi chiedo, è possibile che l’estro sessuale si svuoti ulteriormente? È possibile che il cumulo di frustrazioni e malanni e morti che esso da sempre implica si presenti in forme ancora più vili di quelle fino a oggi note?

È possibile. Accade in Colombia, dove il nuovo gioco è la “ruleta sexual”: «La base di questa pratica è semplice quanto pericolosa. Gli adolescenti si riuniscono, consumano alcolici e iniziano a ballare sulle canzoni più popolari del momento. Poi inizia la vera e propria “gara”. Le ragazze si voltano di schiena e si posizionano in cerchio. Da lì il nome Ruleta. Il compito dei ragazzi che partecipano alla “gara” è quello di effettuare più penetrazioni possibili prima di raggiungere l’orgasmo. Coloro che eiaculano vengono eliminati. Il sesso avviene senza protezione perché chi pratica questo “gioco” sessuale è convinto del fatto che una penetrazione veloce non possa provocare una gravidanza, né trasmettere malattie veneree. Una convinzione evidentemente sbagliata» (qui il testo integrale della notizia).

Non c’è più anelito spirituale, nessuna velleità mistica, nessuno spirito di fiero e luciferino trasporto anti-clericale, nessuna grande utopia storicista, nessun’impalcatura strutturalista. Non c’è più la rivendicazione di un amore, autentico spontaneo smodato, ma almeno nominalmente amore. Non c’è nemmeno il buon vecchio piacere della carne. C’è un gioco poco intelligente e molto pericoloso. Da bambini giocavamo a centrare le bocce dei pesci rossi con le palline: oggi si centrano le amichette usando i propri corpi come attrezzi da spiedo. Senza relazione, senza quasi contatto, senza personalità.

I giornalisti si contentano di segnalare all’uopo i problemi di contagio venereo. Satana si contenta e basta. Sono i giovani d’oggi. Sono le sue scimmie. Sono gli adulti di domani. E io basito mi taccio. Urge un grande sacrificio di riparazione. Sennò non potrà che finire in un modo e un modo soltanto. Il solito.

Ma nell’attesa, forse, potrebbe soddisfarci un rimedio parziale, andare a recuperare il senso di sublimità dell’erotismo quo talis. Nell’attesa, forse, basterebbe un consiglio di Tinto Brass, peccaminoso e scandalizzante, e umano troppo umano, ma almeno appunto ancora: umano.

Sentirmi di frequente paragonato a un maiale mi piace tantissimo. Mi creda: è un giudizio lusinghiero. Perché due maiali fanno l’amore con gusto, come nessun altro animale al mondo: muovendosi, agitandosi con allegria…

Il sesso è la più splendida forma di piacere che Dio abbia regalato agli uomini. Sporcata però, e a volte considerata obbrobriosa, dalla cultura del potere che governa ogni società”.

Pio IX. Fiction o storia?

Articolo pubblicato su Campari & De Maistre lo scorso 11 aprile.

“L’ultimo Papa re” è il titolo della fiction di Rai 1 trasmessa nelle serate dell’8 e 9 aprile, omaggio di Luca Manfredi a una pellicola in cui recitò suo padre nel 1977 (“In nome del Papa re”). Siccome l’esito non è dei più entusiasmanti, il regista ha pensato bene di esplicitare qualche chiave di lettura ideologica che invitasse alla visione:

“nel ricordo di uno dei più bei film recitati da papà, mi auguro che sia chiaro l’intento e il messaggio contenuto nella serie: il confronto tra una Chiesa reazionaria e attaccata al potere e una Chiesa più pastorale e progressista”.

Mi è tornato subito alla mente il libro di Roberto de Mattei “Pio IX e la Rivoluzione italiana” (Cantagalli, 2012), dove si argomentano, non in onore di papà ma pro dilectione veritatis, i fatti e le ragioni del contrasto tra Pio IX e gli altri. Converrà rileggerlo assieme per sommi capi.

Il testo si divide in due parti: ricostruzione storica degli eventi e ricapitolazione teologico-culturale dei maggiori pronunciamenti di Pio IX. Quanto alla prima parte, evito di ricostruire i noti fatti della Questione Romana e mi soffermo sul loro valore, come emerge dallo studio.

Partiamo dai personaggi.

Il quadro ci presenta anzitutto un vivaio di cospiratori, con quartier generali negli Stati Pontifici (l’Alta Vendita di Nubius), progetti nitidi di “radicale comunistizzazione della società” (Filippo Buonarroti, p. 23), coinvolgimento di personalità incensurate (Gioberti). Costoro, e molti altri, gestiranno la pariglia fino a che si passerà dalla rivoluzione delle barricate alla rivoluzione dei bureaux, cioè alla cospirazione fatta legge e Parlamento, con Cavour – il quale “tracciava alla Camera il programma di cui, come è stato avvertito, la storia italiana postunitaria sembra rappresentare, fino ai nostri giorni, il puntuale svolgimento” (p. 85) – e i governi anticattolici internazionali – “non è un caso che le terre da liberare siano solo quelle appartenenti allo Stato Pontificio e all’Austria cattolica e conservatrice”, mentre “Nizza e la Savoia vengono cedute alla Francia, sempre straniera ma amica” (p. 79) –.

Ma il nostro protagonista è Giovanni Mastai Ferretti, nato il 13 maggio (un giorno che i cattolici impareranno a tenere particolarmente a cuore, specie in riferimento all’azione mariana nella storia, specie dopo il 1917): Pio IX per gli amici.

Quanto agli eventi romani unitari, il Metternich li descrive così: “ciò che si è prodotto in questo Stato è una rivoluzione che si copre della maschera delle riforme” (p. 39). Maschera che verrà meno prima con la proclamazione della repubblica Romana e poi con la presa di Porta Pia, vero e proprio “Ottantanove d’Italia”.

Ferma la risposta del beato, fin dall’allocuzione concistoriale del ’48, con la quale si oppose ai cospiratori e con ciò siglò “una pagina di storia scritta ai piedi del crocifisso”, mettendosi lui stesso in croce in quanto “la rivoluzione esigeva una sanzione alle sue dottrine… egli invece condannò le sue opere” (p. 46).

Segue, da parte rivoluzionaria, il solito canovaccio costellato dalle “occupazioni di conventi, le profanazioni delle Chiese, i massacri di sacerdoti, le orge nei luoghi sacri” (p. 57); sul lato opposto si svela “la tiepidità dei conservatori” i quali “mancano per lo più di ardimento e son più disposti a soffrire che ad agire” (p. 50). Su tutti però si impone la fermezza del Papa, il quale senza mezzi termini riconosce che “i potenti della terra sono divenuti adulatori della rivoluzione” (p. 75), e alle adulazioni degli adulatori ribatte: “se per la speranza di salvarci incominciamo a cedere questo e poi quello, ci sarà chiesto sempre di più: oggi consegneremo il pastorale, domani ci spoglieremo del piviale, finalmente ci toglieremo e doneremo il triregno, e con tutto questo non ci salveremo” (p. 64). E così, non per far sfoggio di beni ma per contrapporsi alla mentalità rivoluzionaria, il Papa mise in disparte le velleità di riforma dei suoi primi mesi di pontificato e rinverdì il valore della massima Istituzione cattolica.

Per questa via e per queste ragioni si approderà rapidamente al non expedit. In un precipitare di eventi che lascerà agli anarchici e ai fautori del pauperismo cattolico una libertà di azione, salutata in questo modo da Cesare Cantù: “distruggete i Comuni, distruggete la famiglia, distruggete i codici, distruggete le autonomie, distruggete le barriere d’Italia; or distruggete la Chiesa, distruggete lo Stato e prima avete distrutto la libertà” (p. 93). Mentre nelle stesse teste dei cattolici andava annebbiandosi la verità che “il principato temporale del pontefice costituisce la condizione necessaria per il libero esercizio della sua autorità spirituale e la questione romana non è una questione politica, ma una questione eminentemente religiosa “ (p. 109). Il potere temporale insomma di per sé non è contrario al Vangelo, anzi opera per la difesa e diffusione di questo.

Lo scarto tra le scimmie della Rivoluzione e il Pontefice dell’Immacolata sta dunque dentro tali coordinate: tra chi riconosce nei fatti storici il dispiegarsi di un disegno divino, del cui svolgimento l’umanità porta non poche responsabilità; e chi invece riduce il tutto a una resa di conti capricciosa tra avversari di questo mondo.

Veniamo ora brevemente alla seconda parte del libro.

Qui si prendono in considerazione tre atti del pontificato di Pio IX: la proclamazione del Dogma dell’Immacolata, la pubblicazione del Sillabo e l’indizione del Concilio Vaticano I. Tre autentici schiaffi in faccia alle ambizioni rivoluzionarie.

Mi limito a qualche pennellata solo attorno al primo dei tre, che peraltro fa da base ai due interventi successivi. Ancora una volta, la necessità di proclamare il dogma si lega alla convinzione, sempre più diffusa negli ambienti pontifici, che “solo questa definizione dogmatica potrà ristabilire il senso delle verità cristiane e ritrarre le intelligenze dalle vie del naturalismo in cui si smarriscono (p. 124).

Lo spiega bene Donoso Cortes: “la negazione del peccato originale è uno dei dogmi fondamentali della rivoluzione” (p. 134). Proclamando Maria Immacolata, il Papa agiva dunque in risposta all’impeto anticattolico dei tempi e mostrava in essa l’antidoto “agli errori contemporanei il cui fulcro era costituito dalla negazione del peccato originale” (p. 133). E con ciò è pure assodato che “il privilegio dell’Immacolata deve essere considerato dunque non in maniera astratta e statica, ma nella sua proiezione storica e sociale” (Ibidem): i dogmi non sono pallini del Papa di turno, ma risposte potenti alle emergenze storiche.

La vera ermeneutica del dogma – oso chiosare – non deve consistere in una resa dei conti tra indirizzi teologici contrapposti, ma nella volontà di rinvigorire nel modo più efficace possibile la portata storico-sociale anti-rivoluzionaria del medesimo.

E credo sia questo in sintesi l’ottimo insegnamento che ci lascia Pio IX. La consapevolezza cioè che la rivoluzione è “organizzazione sociale del peccato” (p. 136), e che ad essa bisogna rispondere con una azione uguale e contraria, quindi sociale e aperta alla Grazia. Non è questione di denigrare il dialogo, o di chiudersi nei bastioni di nostalgismi stantii, ma di riconoscere che “la lotta tra il Serpente e la Vergine, tra i figli della rivoluzione e i figli della Chiesa, si delinea come lotta totale e irriducibile tra due famiglie spirituali”, e che essa è viva e attuale, e che quindi è dovere schierarsi – semplici come colombe ma prudenti come serpenti –, tenendo caro l’ammonimento di san Luigi Maria Grignion di Montfort: “Dio ha posto inimicizie, antipatie e odi segreti tra i vari figli e servi della Vergine Maria e i figli e schiavi del demonio” (p. 137).

Rinunciare a tanta sfida, o ridurla a mera fiction… non expedit.

Il Grande Inquisitore (versione integrale)

Ripropongo le precedenti 4 parti accorpate e senza modifiche.

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Manie di grandezza. Fissazioni quantitative. Razionalità divorziata dalla teologia – quella vera – e sodomizzata dalla scienza e dalle sue misure. E’ così che nasce un mito: il Grande Inquisitore. Di cui oggi parliamo, in 4 puntate, con l’utopia di congedarcene definitivamente. Da bravi cattolici.

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DE MONTICELLI: tutti in difesa dell’unicità

Nel passo che segue De Monticelli lo interpreta come l’avversario dell’unicità della coscienza. E non lasciamoci ingannare dal fatto che qui si depreca l’omicidio di Terry Schiavo – in altri testi la medesima autrice difenderà il diritto al suicidio di Welby -, perché appunto a dover esser difesa non è la verità in quanto essa può e deve mantenere di oggettivo e condiviso, ma solo il primato indiscutibile della coscienza del singolo.

Del racconto di Dostoevskij si prende l’inciso: “Invece di solidi fondamenti capaci di tranquillare la coscienza dell’uomo una volta per sempre, Tu hai voluto che con libero cuore… l’uomo scegliesse lui stesso cosa fosse bene e cosa fosse male”, da cui si traggono le considerazioni congruenti:

L’attualità di questa pagina si constata ogni volta che si vede quanto facilmente l’opinione pubblica si lascia guidare dell’Ideologia, il cui mestiere (di qualunque ideologia si tratti) è precisamente quello di fornire soluzioni bell’e pronte, evitando il faticoso esercizio della facoltà di discernere. (p. 102)

Salta agli occhi il bisogno di generalità assertorie, che persino in un caso come questo la vince sulla percezione dell’individualità e dell’unicità di un semplice smarrito volto umano. 

Il Grande Inquisitore ride trionfando (p. 104)

Roberta De Monticelli, Nulla appare invano, Baldini Castoldi Dala, Milano 2006.

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MANCUSO: l’importante è prendere Roma

Nel suo Obbedienza e libertà, Mancuso dedica al nostro un intero capitolo, La teologia politica del Grande Inquisitore,  in cui viene messo alla sbarra il “delicato rapporto tra potere ecclesiastico e verità”, dalla disamina storica del quale emergerebbe che

la repressione della libera ricerca della verità è stata un elemento costitutivo non solo dell’istituzione Chiesa in quanto fenomeno sociale e politico, ma anche della configurazione della sua dottrina e della sua spiritualità. (p. 48)

Vito Mancuso, Obbedienza e libertà, Campo dei fiori, Roma 2012.

In questo caso il cardine argomentativo sta nella ricostruzione delle forze che reggono il cattolicesimo:

Esistono sulla terra tre forze, le uniche tra forze capaci di vincere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli al fine di renderli felici – sono il miracolo, il mistero, l’autorità. (pp. 50-51)

Ovviamente il Gesù del romanziere russo ha rifiutato tutti e tre le risorse, differentemente dall’Inquisizione cattolica. Il Grande Inquisitore di Mancuso, forse anche a ragione della posizione anomala e della sensibilità peculiare di questo ex sacerdote ambrosiano, è un’icona dell’anti-romanità per eccellenza; senza neppure più le sfumature filosofiche universali della lezione eccentrologica demonticelliana. A ragione Mancuso riconosce che nella Catholica vige “il principio autorità”, a torto lo considera dialetticamente alternativo (ricordiamo che Mancuso esordisce come teologo hegeliano) alla verità e alla libertà.

Specularmente si ricava il senso e la missione di Gesù di fronte a questo truce Giudice terreno. Si prende a criterio ermeneutico il parere dell’ateo Ivan:

Se davvero ce la farò ad amare, sarà soltanto nel tuo ricordo. Mi basterà sapere che sei qui, da qualche parte, e non vorrò ancora smettere di vivere. (p. 53)

E si traggono le fila della questione:

La vera fede in Dio deve fare solo questo, stare accanto agli uomini e ricordare con la propria vita e con il minor numero di parole possibili che questa esistenza può avere un senso e che questo senso è l’amore, e generare così nelle anime sfiduciate voglia di vivere. (Ibidem)

La vera fede è quella degli atei; ha la funzione di un antidepressivo (un Malox teologico); vive di silenzi (che Mancuso nella sua grafomania subito tradisce); consiste in un auto-convincimento francamente né solido né sicuro.

Ovviamente, poste simili premesse, non possono che venirne pessime conclusioni. L’autore lo riconosce.

L’opposizione sistematica tra libertà e appartenenza alla Chiesa Cattolica, dichiarata da Dostoevskij, durante il Novecento si è andata dilatando, e ha generato la diffusissima idea di una opposizione sistematica tra libertà ed esperienza spirituale. Occorre sfatare questo luogo comune.

Eh già, non è che occorra confutare l’invenzione letteraria anti-romana dello scrittore ortodosso, prospettiva parziale e forzata dalla cui menzogna – come da ogni menzogna – derivano frutti marci; no, bisogna tenere l’odio anti-cattolico, ma salvare il resto. Lasciamo l’eretico Mancuso a questa sua fatica disperata, senza manco più la soddisfazione di poter attestare la propria sincerità nella forma eroica di qualche rogo – no, a lui resti solo l’attesa annoiata della teologia del Malox.

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CACCIARI: teologia politica, katechon e mitomanie

E infine un terzo autore, curiosamente anche lui approdato all’Ateneo del San Raffaele, più intrigante dei precedenti: Massimo Cacciari. Trovo una sua lettura del Grande Inquisitore incastonata nella riflessione teologico-politica sul katechon. Il katechon, il potere che frena, al confine tra Cristo e Anticristo, è lì che si colloca l’Inquisitore. Delle tre, certamente la lettura più profonda e radicale, comunque aperta all’idea che il freno demorderà, e che allora l’Apostasia potrà dilagare.

L’anticristicità che l’Inquisitore professa è rigorosa. (p. 102)

Non nega la divinità del Cristo. Ma nega il Cristo punto e basta.

L’anticristicità diviene per lui condizione dell’agire catecontico. (p. 103)

L’unico modo per frenare l’Apostasia è frenare Cristo. Cristo infatti è la causa di quel declino che porterà all’Apostasia.

E’ dal nomos della croce che una tale energia si sprigiona inesorabilmente. Quel nomos spalanca l’abisso della libertà in cui l’uomo, insalvabile in-fante, non può che precipitare. (Ibidem)

In alternativa si concepisce l’azione dell’Inquisitore

Egli impersona il movimento per cui il katechon si supera… Katechon si traduce per lui in potere coercitivo, aperto a nulla, poiché in nulla si trascende, in nulla è redimibile, la natura stessa dell’esserci. (p. 104)

Questa disperazione circa la redimibilità dell’uomo produce una simile figura storica – L’inquisitore non è un legatus dell’Antikeimenos, “viene da noi”  (p. 105) – che sta dalla parte dei dèmoni proprio fingendo di esserne il più radicale oppositore. (p. 104).

Ovviamente l’Inquisitore è destinato a fallire. Incapace di “ritardare” l’effetto cristico dell’esasperazione della libertà, si scopre sempre e solo “in ritardo”, e comunque sottoposto al giudizio spiazzante di Cristo nel Suo bacio. (cf. p. 106)

Nulla intuisce di poter fare per arrestare il giudizio.  Esso verrà, e gli suonerà profondamente ingiusto. Perché il metro su cui verrà formulato è per lui profondamente estraneo alla natura dell’uomo e della sua storia. (p. 107)

M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013.

Cacciari è d’accordo con De Monticelli: l’Inquisitore ha paura della libertà anomica suscitata dal proto-rivoluzionario Cristo.

Mancuso invece si perde nelle secche di un’apologetica anticattolica molto superficiale e strumentale.

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SCHMITT: una via di uscita, dalla giustizia alla gloria

Sui tre autori però urge imporre la lettura virile di Carl Schmitt. Virile e soprattutto cattolica, cioè capace di penetrare l’intenzionalità cattolica e di leggerla in se stessa, e non invece enfatizzandone in modo artefatto le sbavature.

Il grande tradimento che si imputa alla Chiesa Romana è proprio che non concepisce Cristo come un privato né il cristianesimo come affare privato e puramente interiore, facendone anzi una istituzione formale e visibile. (p. 63)

Fatti saltare la De Monticelli e Mancuso in  tre righe e un toc, Schmitt può dedicarsi a una demolizione ante litteram di Cacciari.

Come ogni imperialismo universale, anche la Chiesa, se consegue il proprio fine, porterà al mondo la pace, ma appunto in ciò una paura ostile alla forma vede la vittoria del demonio. (Ibidem)

La soluzione radicale è sconfessare Dostoeskij, grande genio, riportando in primo piano la questione prima: il prosatore russo non è cattolico, non ragiona da cattolico e non capisce il cattolicesimo. Ben che vada vi proietta sopra i suoi propri sospetti ortodossi e anti-romani, mal che vada vi proietta di peggio.

Qui Dostoevskij, con grande violenza, ha proiettato sulla Chiesa cattolica il proprio potenziale ateismo. Per il suo istinto fondamentalmente anarchico — che è sempre ateo — ogni potere era qualcosa di malvagio e d’inumano. (p. 64)

Schmitt stesso riconosce i rischi insiti nell’esercizio di potere ecclesiastico, ma pure guarda oltre, guarda al valore che tale potere rappresenta e tutela semplicemente essendo se stesso.

Nella dimensione temporale la tentazione del Male, che è presente in ogni potere, è senza dubbio perenne, e l’opposizione fra bene e potere è superata, senza residui, soltanto in Dio; tuttavia, il volersi sottrarre a quell’opposizione, rifiutando ogni potere mondano, sarebbe la peggiore inumanità. (Ibidem)

Ciò posto, bisogna pur fare i conti con la totale distorsione della razionalità delle masse, con l’imporsi di un gusto psicologico e culturale che tende pervicacemente a fraintendere il cattolicesimo, anche a costo di insistere su letture grottesche del Cristo.

Una sensibilità oscura e ampiamente diffusa sente la freddezza istituzionale del cattolicesimo come malvagia, mentre l’informe enormità di Dostoevskij è percepita come vero cristianesimo. Ma ciò è banale, come tutto quello che resta prigioniero della sensibilità e della sensazione; e non si vede neppure quanto poco cristiana sia la teoria che Cristo — fra la Sua esistenza terrena e il Suo glorioso avvento il giorno del Giudizio — possa apparire una o più volte fra gli uomini, per così dire a mo’ d’esperimento. (Ibidem)

Che dunque? Dovremo arrenderci all’alternativa sterile tra un gout dé modernité ciecamente anti-cattolico, e una ripetizione del secco imperativo giuridico dei romani? No, Schitt va oltre. E propone un anti-dostoevskij, un autore alternativo, non meno acuto ma più veracemente petrino.

Con maggior concisione di Dostoevskij e tuttavia con una latitudine d’orizzonte infinitamente più ampia, lo spirito di un cattolico francese ha inventato un’immagine che racchiude tutta la tensione di quell’antagonismo fra giustizia e splendore glorioso e che contemporaneamente (con la formulazione di un appello rivolto contro il giudizio di Dio) spinge dialetticamente la giustizia all’estremo, conservando la categoria giuridica proprio con l’introdurre formalmente una sentenza e un appello. Ernest Hello ha avuto il coraggio di dipingere un’incredibile scena del Giudizio universale: una volta che il Giudice del mondo ha emesso la propria sentenza, un dannato, carico di delitti, se ne starà fermo e, fra l’orrore dell’universo, dirà al giudice: «j’en appelle». «A queste parole si spengono le stelle». Ma nell’idea del Giudizio universale è implicito che le sue sentenze siano assolutamente definitive, «effroyablement sans appel». «A chi ti appelli, contro il mio giudizio?», gli chiede Gesù Cristo, il Giudice; in un tremendo silenzio il dannato risponde: «j’en appelle de ta justice à ta gloire». (p. 65)

C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Il Mulino, Bologna 2010.

C’è una buona notizia per tutti: di Dostoeskij si può fare a meno. E del Grande Inquisitore, di Cacciari, Mancuso, De Monticelli. E si può essere fieramente ed autenticamente cattolici. Oggi e “di oggi”.