Pio IX. Fiction o storia?

Articolo pubblicato su Campari & De Maistre lo scorso 11 aprile.

“L’ultimo Papa re” è il titolo della fiction di Rai 1 trasmessa nelle serate dell’8 e 9 aprile, omaggio di Luca Manfredi a una pellicola in cui recitò suo padre nel 1977 (“In nome del Papa re”). Siccome l’esito non è dei più entusiasmanti, il regista ha pensato bene di esplicitare qualche chiave di lettura ideologica che invitasse alla visione:

“nel ricordo di uno dei più bei film recitati da papà, mi auguro che sia chiaro l’intento e il messaggio contenuto nella serie: il confronto tra una Chiesa reazionaria e attaccata al potere e una Chiesa più pastorale e progressista”.

Mi è tornato subito alla mente il libro di Roberto de Mattei “Pio IX e la Rivoluzione italiana” (Cantagalli, 2012), dove si argomentano, non in onore di papà ma pro dilectione veritatis, i fatti e le ragioni del contrasto tra Pio IX e gli altri. Converrà rileggerlo assieme per sommi capi.

Il testo si divide in due parti: ricostruzione storica degli eventi e ricapitolazione teologico-culturale dei maggiori pronunciamenti di Pio IX. Quanto alla prima parte, evito di ricostruire i noti fatti della Questione Romana e mi soffermo sul loro valore, come emerge dallo studio.

Partiamo dai personaggi.

Il quadro ci presenta anzitutto un vivaio di cospiratori, con quartier generali negli Stati Pontifici (l’Alta Vendita di Nubius), progetti nitidi di “radicale comunistizzazione della società” (Filippo Buonarroti, p. 23), coinvolgimento di personalità incensurate (Gioberti). Costoro, e molti altri, gestiranno la pariglia fino a che si passerà dalla rivoluzione delle barricate alla rivoluzione dei bureaux, cioè alla cospirazione fatta legge e Parlamento, con Cavour – il quale “tracciava alla Camera il programma di cui, come è stato avvertito, la storia italiana postunitaria sembra rappresentare, fino ai nostri giorni, il puntuale svolgimento” (p. 85) – e i governi anticattolici internazionali – “non è un caso che le terre da liberare siano solo quelle appartenenti allo Stato Pontificio e all’Austria cattolica e conservatrice”, mentre “Nizza e la Savoia vengono cedute alla Francia, sempre straniera ma amica” (p. 79) –.

Ma il nostro protagonista è Giovanni Mastai Ferretti, nato il 13 maggio (un giorno che i cattolici impareranno a tenere particolarmente a cuore, specie in riferimento all’azione mariana nella storia, specie dopo il 1917): Pio IX per gli amici.

Quanto agli eventi romani unitari, il Metternich li descrive così: “ciò che si è prodotto in questo Stato è una rivoluzione che si copre della maschera delle riforme” (p. 39). Maschera che verrà meno prima con la proclamazione della repubblica Romana e poi con la presa di Porta Pia, vero e proprio “Ottantanove d’Italia”.

Ferma la risposta del beato, fin dall’allocuzione concistoriale del ’48, con la quale si oppose ai cospiratori e con ciò siglò “una pagina di storia scritta ai piedi del crocifisso”, mettendosi lui stesso in croce in quanto “la rivoluzione esigeva una sanzione alle sue dottrine… egli invece condannò le sue opere” (p. 46).

Segue, da parte rivoluzionaria, il solito canovaccio costellato dalle “occupazioni di conventi, le profanazioni delle Chiese, i massacri di sacerdoti, le orge nei luoghi sacri” (p. 57); sul lato opposto si svela “la tiepidità dei conservatori” i quali “mancano per lo più di ardimento e son più disposti a soffrire che ad agire” (p. 50). Su tutti però si impone la fermezza del Papa, il quale senza mezzi termini riconosce che “i potenti della terra sono divenuti adulatori della rivoluzione” (p. 75), e alle adulazioni degli adulatori ribatte: “se per la speranza di salvarci incominciamo a cedere questo e poi quello, ci sarà chiesto sempre di più: oggi consegneremo il pastorale, domani ci spoglieremo del piviale, finalmente ci toglieremo e doneremo il triregno, e con tutto questo non ci salveremo” (p. 64). E così, non per far sfoggio di beni ma per contrapporsi alla mentalità rivoluzionaria, il Papa mise in disparte le velleità di riforma dei suoi primi mesi di pontificato e rinverdì il valore della massima Istituzione cattolica.

Per questa via e per queste ragioni si approderà rapidamente al non expedit. In un precipitare di eventi che lascerà agli anarchici e ai fautori del pauperismo cattolico una libertà di azione, salutata in questo modo da Cesare Cantù: “distruggete i Comuni, distruggete la famiglia, distruggete i codici, distruggete le autonomie, distruggete le barriere d’Italia; or distruggete la Chiesa, distruggete lo Stato e prima avete distrutto la libertà” (p. 93). Mentre nelle stesse teste dei cattolici andava annebbiandosi la verità che “il principato temporale del pontefice costituisce la condizione necessaria per il libero esercizio della sua autorità spirituale e la questione romana non è una questione politica, ma una questione eminentemente religiosa “ (p. 109). Il potere temporale insomma di per sé non è contrario al Vangelo, anzi opera per la difesa e diffusione di questo.

Lo scarto tra le scimmie della Rivoluzione e il Pontefice dell’Immacolata sta dunque dentro tali coordinate: tra chi riconosce nei fatti storici il dispiegarsi di un disegno divino, del cui svolgimento l’umanità porta non poche responsabilità; e chi invece riduce il tutto a una resa di conti capricciosa tra avversari di questo mondo.

Veniamo ora brevemente alla seconda parte del libro.

Qui si prendono in considerazione tre atti del pontificato di Pio IX: la proclamazione del Dogma dell’Immacolata, la pubblicazione del Sillabo e l’indizione del Concilio Vaticano I. Tre autentici schiaffi in faccia alle ambizioni rivoluzionarie.

Mi limito a qualche pennellata solo attorno al primo dei tre, che peraltro fa da base ai due interventi successivi. Ancora una volta, la necessità di proclamare il dogma si lega alla convinzione, sempre più diffusa negli ambienti pontifici, che “solo questa definizione dogmatica potrà ristabilire il senso delle verità cristiane e ritrarre le intelligenze dalle vie del naturalismo in cui si smarriscono (p. 124).

Lo spiega bene Donoso Cortes: “la negazione del peccato originale è uno dei dogmi fondamentali della rivoluzione” (p. 134). Proclamando Maria Immacolata, il Papa agiva dunque in risposta all’impeto anticattolico dei tempi e mostrava in essa l’antidoto “agli errori contemporanei il cui fulcro era costituito dalla negazione del peccato originale” (p. 133). E con ciò è pure assodato che “il privilegio dell’Immacolata deve essere considerato dunque non in maniera astratta e statica, ma nella sua proiezione storica e sociale” (Ibidem): i dogmi non sono pallini del Papa di turno, ma risposte potenti alle emergenze storiche.

La vera ermeneutica del dogma – oso chiosare – non deve consistere in una resa dei conti tra indirizzi teologici contrapposti, ma nella volontà di rinvigorire nel modo più efficace possibile la portata storico-sociale anti-rivoluzionaria del medesimo.

E credo sia questo in sintesi l’ottimo insegnamento che ci lascia Pio IX. La consapevolezza cioè che la rivoluzione è “organizzazione sociale del peccato” (p. 136), e che ad essa bisogna rispondere con una azione uguale e contraria, quindi sociale e aperta alla Grazia. Non è questione di denigrare il dialogo, o di chiudersi nei bastioni di nostalgismi stantii, ma di riconoscere che “la lotta tra il Serpente e la Vergine, tra i figli della rivoluzione e i figli della Chiesa, si delinea come lotta totale e irriducibile tra due famiglie spirituali”, e che essa è viva e attuale, e che quindi è dovere schierarsi – semplici come colombe ma prudenti come serpenti –, tenendo caro l’ammonimento di san Luigi Maria Grignion di Montfort: “Dio ha posto inimicizie, antipatie e odi segreti tra i vari figli e servi della Vergine Maria e i figli e schiavi del demonio” (p. 137).

Rinunciare a tanta sfida, o ridurla a mera fiction… non expedit.

Non saremo benigni

Sarà anche vero che il cattolicesimo italiano era legato dovuto all’ignoranza del popolo, abilmente sfruttata dall’oscurantismo ecclesiastico. Il problema è capire se l’alfabetizzazione e la digitalizzazione sono sufficienti a rendere il popolo autonomo e colto, oppure se, illudendolo di esser tale, abbiamo trovato nuovi modi per soggiogarlo.

A me ne viene in mente uno. Uno per tutti. Profumatamente pagato dal popolo e imposto dalle élite.

Lo convocano quando c’è da parlare di cultura

anche se la cultura è ben altra…

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Lo evocano quando c’è da parlare di storia

anche se la storia è ben altra…

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Lo convocano quando c’è da parlare di patria

anche se la patria è ben altra…

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Lo convocano quando c’è da parlare di politica

anche se la politica è ben altra…

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Cultura, storia, politica, patria. Nomi posticci, che calzano malamente sugli spettacoli del fantoccio aretino. Buono solo a demitizzare la cattolicità patente di Dante e quella latente di Collodi.

Buono a diffondere la propaganda che mescola anticlericalismo annacquato, ideologia rivoluzionaria carbonara, anti-fascismo di rito, idolatria dello stato laico, inquadramento culturale a perfetto regime.

Il prossimo spettacolo sarà certamente in difesa dei gay. O giù di lì. Dove si annusa risata facile, applauso scontato, pensiero gracile, coraggio zero: lui zompa!

E infine faccio notare che tra gli spettacoli “culturali” di oggi e quelli comici degli anni novanta non è cambiato nulla. Stesso stile, stessi bersagli, stessi saltelli, stessi buchi argomentativi, stessa piaggeria.

Ridatemi i contadini ignoranti e le loro benedette Insorgenze!!!

La vulva d’oro del risorgimento. Altro che Minetti

A chi, digiuno di storia e storie, si sia lasciato scandalizzare dai pastiche carnacei del Berluscone nazionale; magari ritenendo deplorevoli le carriere di Minetti, Garfagna, Ruby, Noemi e socie.
A chi, nonostante quanto sopra, continuasse a trastullarsi della novella risorgimentale coi suoi miti patrii e le sue eziologie di fondazione.

A tutti costoro chiederei di fare una scelta. Perchè il vero e solo spirito patriottico – che evidentemente appartiene al sottoscritto – è quello che applaude l’Italia, però non potendo tralasciare di, e anzi concorrendo ad applaudirne gli stili propriamente italici di auto-fondazione.

Ora, da che Italia è Italia, l’Italia è fatta da gran donnaioli e da sagacissime donnone.

Che poi il duo (o il gruppuscolo) Berluscone-Minetti sia tiepida emulazione rispetto al duo (o gruppuscolo) Vitorio-emanuele-secondo-Virginia-elisabetta-luisa-carlotta-teresa-ntonietta-maria è cosa patente. Però insolubile.

Se accetti il risorgimento, coerentemente ne accetti i prodromi sessuomani e gli attuali esiti villani.
Se rifiuti le sporcacciate silviesche – povero te – mi devi pure rinnegare almeno in parte, e che parte!, le porciute gesta di chi (si) fece l’Italia.

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e pure QUI

 

 

L’Italia federale: faro oltre la crisi

Così F. Alberoni in prima pagina sul Corriere di Lunedì 28 Marzo:

Perché il patrimonio artistico dell’Italia è così ricco e variato? Perché nel corso di quasi tremila anni si sono succeduti nel nostro piccolo territorio molti popoli…
Gli etruschi… Poi Roma…
A partire dall’anno Mille in Italia sono fioriti i comuni… I signori di queste capitali vi hanno profuso enormi ricchezze per dotarle di stupende opere d’arte…
Dopo l’unificazione nazionale, questo processo è rallentato… la grande borghesia, salvo alcune eccezioni, ha smesso di identificarsi con la città in cui vive, non vi ha più costruito palazzi, giardini, chiese…
Questa situazione potrebbe cambiare con il federalismo…

Difficile dire cosa stupisca maggiormente di questo fondo, vero e proprio affondo al sentire mediatico comune.

La critica, parca serena e perciò incisiva, all’unificazione dell’Italia (che non è contestazione dell’unità d’Italia)?

Oppure l’apertura sull’opportunità del federalismo: culturale e tradizionale, prima che economico?

Ci sarebbe anche il riconoscimento implicito della bontà socio-culturale di un giusto pluralismo, purché integrato in un debito senso di identità superiore comune.

L’Italia realizza anche così la sua missione storica di esemplarità verso il mondo, mostrandoci che la maggior fruttuosità storica non dipende

  • né da un pluralismo sconnesso (l’attuale schizofrenia nordamericana – equivalente al nichilismo post-gramsciano patrio),
  • né da un monolitismo monocolore (il declino del Medioriente contemporaneo – equivalente al burocratismo pre-para-post-fascista nostrano),
  • ma da una adeguata differenziazione ed autonomia (nel nostro caso era adeguata alle zone geografiche e culturali della Penisola) all’interno di un pur sempre saldo bacino di conformità (l’unità religiosa e teologica del cattolicesimo).