Silence impossible

Primo step. I grandi registi si vedono dai piccoli dettagli, e il piccolo dettaglio nei film basati sul concetto di sacrificio è la croce. In “The Passion” la croce è un tronco scheggiato cui il Cristo si aggrappa in un abbraccio scandaloso d’amore; in “Cristiada” la croce è un monile che il colonnello ateo lascia sul fondo di un bicchiere di whisky (o simili) per ricordare al dittatore ateo che almeno la libertà, almeno quella, va garantita sempre e a tutti (come il buon whisky, suppongo); in “Apocalypto” la croce è quella del frate, nella scena finale, quando la scialuppa si stacca dalle caravelle e approda alla costa e, certamente, il frate che la regge è un idiota senza coscienza, ma si intuisce che quell’idiota, portando la croce, toglierà il giogo dei sacrifici umani; in “Hateful Eight” la croce è una scultura di pietra che domina tre minuti di ripresa sotto un pesante strato di neve; in “Silence” è un artefatto in legno nascosto in una bara in fiamme.

Ora, “The Passion” è un film epocale, dove finalmente la croce è stata rappresentata e non solo romanzata; “Cristiada” è un film godibile, impreziosito più dal soggetto politicamente scorretto che da una suprema regia, ma di sapore forte e barricato, come un buon whisky (o simili); “Apocalypto” è onesto, ha capito che non si poteva dire in un film il prodigio della conversione latino-americana, anche perché dovuta a Guadalupe e non tanto ai missionari, e dunque ha detto poco, appena accennato. Restano Tarantino e Scorsese. Il primo sufficientemente nichilista e risoluto da potersi permettere di immortalare le cose come stanno: l’umanità senza Dio, un carnaio di corpi dilaniati e impallinati, destinati a decomporsi non appena la conserva invernale verrà meno; la religione, un concentrato di simboli sempre eloquenti e sempre muti, pietrificati, posti ai crocevia della vita, capace però di sopravvivere a stagioni e a carovane, a mode e a discorsi umani troppo umani.

Il secondo, ahinoi, cattolico, di quel cattolicesimo slavato di modernismo in nome della coscienza, per cui incapace sia di grandi gesta religiose sia di grandi gesta irreligiose: la fede è la codardia di un apostata troppo piagnucoloso per risolversi contro Cristo e troppo intellettualoide per risolversi per Cristo (ripeto: intellettualoide, a confronto col compagno di spedizione dimostra di mancare sin delle basi della teologia tridentina, che pure è semplice), non avendo accettato l’obbedienza “perinde ac cadaver” conclude la sua parabola abiurale da cadavere e si trova in mano un piccolo crocifisso di legno destinato a finire in cenere con lui, evidentemente concessogli come inutile amuleto da pietosi buddisti mai convertiti (la moglie di un altro che non si è scelto, mentre si era scelto la vocazione religiosa), sì che col prete fallito si realizza davvero lo spauracchio ventilato dal suo cedevole maestro (Ferreira): aver ridotto il Vangelo a una nuova superstizione nipponica, senza radici e senza futuro – appunto prigioniera del presente vuoto della coscienza.

Secondo step. I grandi registi sono immortalati dai loro film. Gibson confeziona due pellicole in poco tempo, nelle quali esprime un pensiero continuativo: chi è Cristo per me, chi è la Chiesa per me. Messaggio complessivo: Cristo è colui il cui sacrificio, perpetuato dalla Chiesa, estingue i sacrifici del mondo. Anche Scorsese fa il filotto, più nella forma di una inclusione, per cui la sua vasta produzione si vede coerentemente incorniciata tra “The last temptation of Christ” e “Silence”. Anche qui si risponde a due domande: chi è Cristo per me, chi è la Chiesa per me. Il Cristo di Scorsese era un fantoccio nevrotico, delineato sugli schizzi delle tradizione gnostica, la Chiesa di Scorsese è un feticcio in decomposizione pericolante sui residui della rivoluzione modernista (con tanto di gesuiti luteranizzanti). Il Cristo di Scorsese non comprende nulla del Padre e solo per un macchinoso colpo di scena finale accetta di salire in Croce, agisce mosso da costrizioni esterne e non da motivazioni interiori, si accorge di essere stato preso in giro; la Chiesa di Scorsese non comprende nulla di Cristo, i suoi consacrati scelgono la missione per ragioni umane – ritrovare un amico (i.e. salvate il soldato Ryan) -, non interiorizzano il senso dell’evangelizzazione, fraintendono completamente il valore della fede popolana e da ultimo, nell’impossibilità registica di elaborare un nuovo macchinoso colpo di scena finale, soccombono e, nella loro apostasia mai radicale, prendono in giro tutti. E si capisce!, rifiutano di agire per ossequiare al formalismo, seguono la propria coscienza puramente soggettiva, che li consegna all’unica cosa cui essa può consegnarci, al torbido eterno ritorno senza identità e senza utilità (il buddismo è il miglior alter-ego esoterico di tale annichilazione all’occidentale). Però, e di nuovo, troppo debole per saltare al vero nichilismo e troppo orgoglioso per accettare il cattolicesimo: a bientot, Nietzsche. Preferisco Tarantino, che almeno fa una scelta netta. In entrambi i casi, noto en passant, i protagonisti di Scorsese sono dei capelloni, barbettati e frignanti. In entrambi i casi, noto en passant, il Cristo e la Chiesa di Scorsese sono messi in scena a partire da romanzi e non dalla storia né dalla Rivelazione.

Terzo step. Una riflessione su Scorsese: cosa cambia a livello ecclesiologico tra “The last temptation” e “Silence”? Perché lì alla fin fine ci si piega all’osservanza esteriore della tradizione e qui ci si abbandona definitivamente alle maschere nicciane della coscienza? C’entra forse il mutato regime romano, ieri ancora capace di direttive magisteriali e oggi aperto al liberalismo teologico? Oppure, al contrario, non è che il mutamento romano abbia ispirato Scorsese, è che Scorsese, da grande artista, è davvero espressione (tragica) del suo tempo (tragico) e, persino, dell’evoluzione religiosa cattolica dell’ultimo cinquantennio. Sia come sia, la voce narrante conclude nel più francescano dei modi: solo Dio può giudicare – tra preti sepolti con rituali di bonzi e con l’eco di quel “padre Francesco” (Ignazio non ricordo se lo nominino) che al popolino ricorderà più che altro Assisi. Altro dettaglio da maestro, aver a suo modo descritto il ruolo unico del sacerdozio nell’irradicare il cristianesimo in una terra pagana: peccato averne poi celebrato l’abiura. Anche qui, spero sia solo per paranoia, vedo temibili parallelismi romani. E da ultimo, su Scorsese, questo elegante elogio della coscienza “absoluta”, questa esaltazione di una religiosità concreta da non giudicare, così in sintonia con le svolte pastorali concrete, coi capricci della coscienza credente, con le abiure almeno materiali della tradizione matrimoniale in casa cattolica… geniali conincidenze. Mi fermo, non senza ricordare che parlare di “Silenzio” di Dio in un film, in cui “de facto” il vero dio è il regista, impossibilitato a tacere sia pure per un solo momento, ha un che di paradossale e curioso.

Quarto step. Una riflessione su don Malatacca. Non so proprio chi possa essere don Malatacca, ma trovo il suo commento a “Silence” su Aleteia. Urgono un paio di osservazioni. La prima: prometto essere l’ultimo commento di un religioso allineato che oso leggere, dato che al prossimo sfoggio di modernismo politicamente corretto con tante sbavature teologiche e tante forzature ermeneutiche (contro la storia, forse anche contro il film-romanzo) rischio di abiurare. La seconda: il prete foggiano scrive che “i contadini sono semplici, chiedono segni tangibili di fede forse più della fede stessa, perché hanno bisogno, la loro fede è “a tatto”, ma è vera. Per una coscienza semplice calpestare un segno della fede è essenziale, è abiura o martirio; è come se calpestassero il Signore in persona”. E per un prete la fede è astratta? I segni della fede non gli sono essenziali? Nel momento in cui l’inquisitore chiede di bestemmiare il nome della Vergine (la frase campeggia nei sottotitoli dei cinema di tutto il mondo, ma io non ho il coraggio di riprodurla), il contadino non può farlo, mentre il prete sì? Ah beh, siam messi proprio bene e capiamo tante cose sul clero odierno. E poi, quello di padre Rodriguez, checché ne dica il Malatacca, non è un martirio – “Ha vissuto un martirio di vergogna, continuo, per non rinnegare il suo Signore” -, ma è la punizione per una scelta sbagliata, è un castigo divino (nel senso teologico del termine, un’auto-punizione che l’uomo si infligge, quando si ribella alla Verità).

Insomma, al solito i commenti della Chiesa sbragata sono peggio dei film di grido, sempre in ansimo per difendere l’indifendibile e per salvare tutto e tutti, tranne ciò che attiene agli imperativi del Cristo. Quanto a me, preferisco il Suo silenzio oggi alla sua condanna domani. E ora attendiamo il nono film di Tarantino, per risollevare lo spirito

Pio IX. Fiction o storia?

Articolo pubblicato su Campari & De Maistre lo scorso 11 aprile.

“L’ultimo Papa re” è il titolo della fiction di Rai 1 trasmessa nelle serate dell’8 e 9 aprile, omaggio di Luca Manfredi a una pellicola in cui recitò suo padre nel 1977 (“In nome del Papa re”). Siccome l’esito non è dei più entusiasmanti, il regista ha pensato bene di esplicitare qualche chiave di lettura ideologica che invitasse alla visione:

“nel ricordo di uno dei più bei film recitati da papà, mi auguro che sia chiaro l’intento e il messaggio contenuto nella serie: il confronto tra una Chiesa reazionaria e attaccata al potere e una Chiesa più pastorale e progressista”.

Mi è tornato subito alla mente il libro di Roberto de Mattei “Pio IX e la Rivoluzione italiana” (Cantagalli, 2012), dove si argomentano, non in onore di papà ma pro dilectione veritatis, i fatti e le ragioni del contrasto tra Pio IX e gli altri. Converrà rileggerlo assieme per sommi capi.

Il testo si divide in due parti: ricostruzione storica degli eventi e ricapitolazione teologico-culturale dei maggiori pronunciamenti di Pio IX. Quanto alla prima parte, evito di ricostruire i noti fatti della Questione Romana e mi soffermo sul loro valore, come emerge dallo studio.

Partiamo dai personaggi.

Il quadro ci presenta anzitutto un vivaio di cospiratori, con quartier generali negli Stati Pontifici (l’Alta Vendita di Nubius), progetti nitidi di “radicale comunistizzazione della società” (Filippo Buonarroti, p. 23), coinvolgimento di personalità incensurate (Gioberti). Costoro, e molti altri, gestiranno la pariglia fino a che si passerà dalla rivoluzione delle barricate alla rivoluzione dei bureaux, cioè alla cospirazione fatta legge e Parlamento, con Cavour – il quale “tracciava alla Camera il programma di cui, come è stato avvertito, la storia italiana postunitaria sembra rappresentare, fino ai nostri giorni, il puntuale svolgimento” (p. 85) – e i governi anticattolici internazionali – “non è un caso che le terre da liberare siano solo quelle appartenenti allo Stato Pontificio e all’Austria cattolica e conservatrice”, mentre “Nizza e la Savoia vengono cedute alla Francia, sempre straniera ma amica” (p. 79) –.

Ma il nostro protagonista è Giovanni Mastai Ferretti, nato il 13 maggio (un giorno che i cattolici impareranno a tenere particolarmente a cuore, specie in riferimento all’azione mariana nella storia, specie dopo il 1917): Pio IX per gli amici.

Quanto agli eventi romani unitari, il Metternich li descrive così: “ciò che si è prodotto in questo Stato è una rivoluzione che si copre della maschera delle riforme” (p. 39). Maschera che verrà meno prima con la proclamazione della repubblica Romana e poi con la presa di Porta Pia, vero e proprio “Ottantanove d’Italia”.

Ferma la risposta del beato, fin dall’allocuzione concistoriale del ’48, con la quale si oppose ai cospiratori e con ciò siglò “una pagina di storia scritta ai piedi del crocifisso”, mettendosi lui stesso in croce in quanto “la rivoluzione esigeva una sanzione alle sue dottrine… egli invece condannò le sue opere” (p. 46).

Segue, da parte rivoluzionaria, il solito canovaccio costellato dalle “occupazioni di conventi, le profanazioni delle Chiese, i massacri di sacerdoti, le orge nei luoghi sacri” (p. 57); sul lato opposto si svela “la tiepidità dei conservatori” i quali “mancano per lo più di ardimento e son più disposti a soffrire che ad agire” (p. 50). Su tutti però si impone la fermezza del Papa, il quale senza mezzi termini riconosce che “i potenti della terra sono divenuti adulatori della rivoluzione” (p. 75), e alle adulazioni degli adulatori ribatte: “se per la speranza di salvarci incominciamo a cedere questo e poi quello, ci sarà chiesto sempre di più: oggi consegneremo il pastorale, domani ci spoglieremo del piviale, finalmente ci toglieremo e doneremo il triregno, e con tutto questo non ci salveremo” (p. 64). E così, non per far sfoggio di beni ma per contrapporsi alla mentalità rivoluzionaria, il Papa mise in disparte le velleità di riforma dei suoi primi mesi di pontificato e rinverdì il valore della massima Istituzione cattolica.

Per questa via e per queste ragioni si approderà rapidamente al non expedit. In un precipitare di eventi che lascerà agli anarchici e ai fautori del pauperismo cattolico una libertà di azione, salutata in questo modo da Cesare Cantù: “distruggete i Comuni, distruggete la famiglia, distruggete i codici, distruggete le autonomie, distruggete le barriere d’Italia; or distruggete la Chiesa, distruggete lo Stato e prima avete distrutto la libertà” (p. 93). Mentre nelle stesse teste dei cattolici andava annebbiandosi la verità che “il principato temporale del pontefice costituisce la condizione necessaria per il libero esercizio della sua autorità spirituale e la questione romana non è una questione politica, ma una questione eminentemente religiosa “ (p. 109). Il potere temporale insomma di per sé non è contrario al Vangelo, anzi opera per la difesa e diffusione di questo.

Lo scarto tra le scimmie della Rivoluzione e il Pontefice dell’Immacolata sta dunque dentro tali coordinate: tra chi riconosce nei fatti storici il dispiegarsi di un disegno divino, del cui svolgimento l’umanità porta non poche responsabilità; e chi invece riduce il tutto a una resa di conti capricciosa tra avversari di questo mondo.

Veniamo ora brevemente alla seconda parte del libro.

Qui si prendono in considerazione tre atti del pontificato di Pio IX: la proclamazione del Dogma dell’Immacolata, la pubblicazione del Sillabo e l’indizione del Concilio Vaticano I. Tre autentici schiaffi in faccia alle ambizioni rivoluzionarie.

Mi limito a qualche pennellata solo attorno al primo dei tre, che peraltro fa da base ai due interventi successivi. Ancora una volta, la necessità di proclamare il dogma si lega alla convinzione, sempre più diffusa negli ambienti pontifici, che “solo questa definizione dogmatica potrà ristabilire il senso delle verità cristiane e ritrarre le intelligenze dalle vie del naturalismo in cui si smarriscono (p. 124).

Lo spiega bene Donoso Cortes: “la negazione del peccato originale è uno dei dogmi fondamentali della rivoluzione” (p. 134). Proclamando Maria Immacolata, il Papa agiva dunque in risposta all’impeto anticattolico dei tempi e mostrava in essa l’antidoto “agli errori contemporanei il cui fulcro era costituito dalla negazione del peccato originale” (p. 133). E con ciò è pure assodato che “il privilegio dell’Immacolata deve essere considerato dunque non in maniera astratta e statica, ma nella sua proiezione storica e sociale” (Ibidem): i dogmi non sono pallini del Papa di turno, ma risposte potenti alle emergenze storiche.

La vera ermeneutica del dogma – oso chiosare – non deve consistere in una resa dei conti tra indirizzi teologici contrapposti, ma nella volontà di rinvigorire nel modo più efficace possibile la portata storico-sociale anti-rivoluzionaria del medesimo.

E credo sia questo in sintesi l’ottimo insegnamento che ci lascia Pio IX. La consapevolezza cioè che la rivoluzione è “organizzazione sociale del peccato” (p. 136), e che ad essa bisogna rispondere con una azione uguale e contraria, quindi sociale e aperta alla Grazia. Non è questione di denigrare il dialogo, o di chiudersi nei bastioni di nostalgismi stantii, ma di riconoscere che “la lotta tra il Serpente e la Vergine, tra i figli della rivoluzione e i figli della Chiesa, si delinea come lotta totale e irriducibile tra due famiglie spirituali”, e che essa è viva e attuale, e che quindi è dovere schierarsi – semplici come colombe ma prudenti come serpenti –, tenendo caro l’ammonimento di san Luigi Maria Grignion di Montfort: “Dio ha posto inimicizie, antipatie e odi segreti tra i vari figli e servi della Vergine Maria e i figli e schiavi del demonio” (p. 137).

Rinunciare a tanta sfida, o ridurla a mera fiction… non expedit.

Schindler e Pio XII: fiction a confronto

Se su Anna Frank i botta e risposta all’accusa di frode si rincorrono lasciando nel dubbio noi poveri spettatori, diverso è per l’altrettanto noto Schindler’s List.

Ora, non pare vero, come alcuni ultraortodossi volevano imporre, che Schindler’s list sia un documentario girato in diretta da un cameramen poi convertito al sufismo.

Ma non pare vero neppure che il lungometraggio si appoggi a un mero fatto di cronaca e storia: quanto a una fiction

Infatti dietro a Spielberg ci starebbe Keneally, un romanziere che, partendo da una serie di informazioni verisimili, avrebbe poi imbastito la storia resa nota dall’altrettanto noto regista

Hollywood is not known for its accurate depictions of historical events. “Schindler’s List” is no exception. Only someone with a twisted worldview or some sort of mental disability would expect a Hollywood production to be faithful to events as they occurred. Thus, we do not expect Spielberg to deal with questions such as whether or not Schindler was working as a Zionist agent. Likewise, we do not expect Spielberg to introduce any ambiguities into his examination of Schindler’s character by dwelling on his postwar behavior, including the shabby way he treated his wife. Avoiding issues such as these make it easier to tell the story, but they do nothing to enhance the film’s historical accuracy.”Schindler’s List” the movie is based on Thomas Keneally’s book of the same name, which is clearly presented as a work of fiction, and indexed by the Library of Congress as such. From this novel, writer Steven Zaillian created the screenplay from which Spielberg shot the movie — which we are now told is virtually a documentary of what actually happened. To its credit, Universal Pictures goes no farther than advertising the film as “based on a true story.”

 This is correct, up to a point. There really was an Oskar Schindler who was married to a woman named Emilie. There was also an Amon Goeth, a factory by the name of Deutsche Emailwaren Fabrik, and a camp by the name of Plaszow. Most everything else is made up, or altered to fit the needs of the story. One good example is that whereas the film’s Schindler is penniless at the end of the war, in reality he had piles of money when he went into hiding.

 Vedi fonte: http://www.ihr.org/jhr/v14/v14n3p-7_Raven.html

Negazionismo? Fate un po’ voi, a me basta sia una notizia vera.

 Del resto di eroi che fecero à la Schindler, ma lo fecero davvero, ne abbiamo tanti anche in patria: Perlasca, certo, ma anche Pacelli di cui in qualche mese fa uscì una nuova testimonianza preziosa di un suo collaboratore ormai novantenne: don Giancarlo Centioni (http://www.zenit.org/rssitalian-20994)

In queste sere non perdetevi la nuova fiction, appunto su Pio XII. Quella sì sarà chiamat fiction eppure, finalmente, ci dirà qualcosa di storicamente e non solo letterariamente
fondato.

Apocalypto: Gibson, Sudamerica e apocalissi

Vedendo il film di Gibson a ritroso potrebbe sorgere un pensiero spontaneo quanto errato: “dalla padella alla brace”. Come dire, il povero indios a mala pena scampato dal cruento regime maya s’imbatte nelle prime caravelle europee portatrici di morte.

Solo che, a essere precisi, l’intento di Gibson era dirci tutt’altro. Qualcosa di più vero sulla storia della colonizzazione sudamericana; e qualcosa di istruttivo sul nostro futuro prossimo o anteriore che sia.

Ieri.

Tutto il film è teso a mostrarci come gli europei non siano arrivati a rovinare una millenaria pace di miti tribù, bensì provvidenzialmente  – cioè a coronamento di longeve profezie locali – siano giunti a dar man forte ai piccoli villaggi contro l’atroce regime sacrificale che li atterriva e ne declinava irrimediabilmente la cultura e la quiete. La vita direi.


La colonizzazione del sud america è stata anzitutto la storia di questa collaborazione, che permise solo così a pochi uomini poco armati di muoversi agilmente nelle impervie foreste e assumerne velocemente il controllo. I danni, ormai è risaputo vennero per lo più dal contagio imprevisto di microbi occidentali sugli indios. Altri soprusi è indubbio che vi furono, ma non così atroci come troppo spesso si dice. Del resto se il sangue sudamericano, pur attraverso molpteplici ,eticciamenti, ancora sopravvive una ragione c’è, e sta proprio nell’attenzione umana dei coloni, in ciò pesantemente redarguiti dai teologi e missionari appresso loro (si pensi, al contrario, che sorte è toccata agli indiani d’america, cui capitò la sventura di essere colonizzati non dai biechi spagnoli ma dagli illuminati protestanti).

Oggi.

A parte la sempre verde possibilità di sceglierci i padroni migliori: di padroni sempre si tratta, ma un conto se ci falcidiano, un conto se ci meticciano. In particolare il film – subito dopo The Passion – ha il sapore, non solo nel titolo, di essere una metafora di ogni Apocalisse. Quella scena storica in cui, prossimi a essere annientati dalle follie dei potenti del mondo, possiamo solo più rivolgerci a un aiuto divino, anzi di Cristo (capo: Gesù; o Corpo: la Chiesa), per ottenere salvezza. Per l’oggi e per l’eternità.

Questo è Apocalypto. Non altro. Se non condividete, basta non guardarlo. Falsificarlo, no.