Sul concetto di Chiesa nell’era franceschiana

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L’attacco all’empio spettacolo di Castellucci, “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, i cui sviluppi peraltro si sono confermati ancor più truci del previsto, mi aveva impegnato per sei lunghi articoli, in tempi non sospetti di facili schieramenti, incluso un affondo a quell’Antonio Socci che dal 2013 in qua ha invece cambiato e volto e toni.  Per chi non ricordasse, Castellucci aveva inscenato un teatro in cui una colata di feci simboliche scendeva sulla gigantografia del Cristo di Antonello da Messina; gli sviluppi turpi, dei quali peraltro sono poco informato, includerebbero schiere di bambini invitati a gettare sassi contro al medesimo Volto. Sei articoli, ovviamente datati ai tempi dell’Università, quando avevo più spazio per certe imprese. Oggi vorrei ritrattare, vorrei accodarmi a Socci che definiva autentica arte, potente espressione dell’umano, quelle regie estreme di Castellucci. Devo farlo, altrimenti non saprei come giudicare lo spettacolo kitch dell’8 dicembre in cui, per dirla con un parafrasi condensata, la Chiesa si è lasciata sodomizzare dagli illuminati: fiat lux, un sequel di icone selvatiche, inneggio all’animalismo, spregio del principio antropico, negazione dell’Immacolata, sottomissione del teologico al politico, finanziate da enti abortisti e mondialisti, proiettate sulla facciata di San Pietro.

Meglio la merda di un artista ateo sul volto di Nostro Signore; non bene, ma meglio. Il fumo di satana, entrato nella Chiesa, ora sembra fuoriuscirne da ogni stipite, fino ad avvolgerne e ad abbracciarne l’intera facciata.  Avrei provato disgusto anche se si fossero proiettate le opere di qualche artista classico del sacro, San Pietro è simbolo di fede, non supporto per spettacolini. Che poi, ancora s’odono le risate di chi denuncia la partecipazione flebile del popolo agli eventi di Chiesa dell’8 mattina; riteniamo forse di supplirvi con mega-show pubblicitari da salotto? L’abominio: sui social amici di ogni tipo, inclusi quindi i molti moderati che neppur sospettano la mia anonima partecipazione ai blog del dissenso, mi contattano e definiscono così la pagliacciata vaticana, riferendosi all’abominio della desolazione.

L’abominio però non sarebbe lo spettacolo, ma la situazione di totale resa culturale della Chiesa contemporanea, l’abominio sarebbe chi la sta mettendo in tale vergognoso stato, a partire dal popolo emotivo e dai preti da applauso.  Dopo il vilipendio del pretorio mistico, vissuto da Benedetto XVI, sembra stiamo entrando nella fase dei tradimenti e delle flagellazioni. Benedetto XVI ci aveva avvisati, serviva una critica umile e profonda della Chiesa dal Concilio in qua. Non l’abbiamo voluta, non l’abbiamo voluto, il resto era tutto già scritto e ci avvilirà per molto ancora. Siamo solo all’inizio, temo. Morale della favola: i grandi maestri spirituali insegnano a fuggire con orrore le tentazioni, io fino a data da precisarsi, ritengo di fuggire con orrore il Vaticano e le sue non angeliche coorti. Di certo la soglia di San Pietro, la San Pietro di scimmie e fere, non vedrà il mio passaggio in quest’anno; vedrà invece il mio contributo l’impegno ad impetrare Misericordia da Dio, sulla mia fede fragile e incoerente anzitutto, e poi sulla Chiesa delle scimmie, che nemmeno più distingue, né tantomeno sa fuggire, atti di materiale apostasia.

Silence impossible

Primo step. I grandi registi si vedono dai piccoli dettagli, e il piccolo dettaglio nei film basati sul concetto di sacrificio è la croce. In “The Passion” la croce è un tronco scheggiato cui il Cristo si aggrappa in un abbraccio scandaloso d’amore; in “Cristiada” la croce è un monile che il colonnello ateo lascia sul fondo di un bicchiere di whisky (o simili) per ricordare al dittatore ateo che almeno la libertà, almeno quella, va garantita sempre e a tutti (come il buon whisky, suppongo); in “Apocalypto” la croce è quella del frate, nella scena finale, quando la scialuppa si stacca dalle caravelle e approda alla costa e, certamente, il frate che la regge è un idiota senza coscienza, ma si intuisce che quell’idiota, portando la croce, toglierà il giogo dei sacrifici umani; in “Hateful Eight” la croce è una scultura di pietra che domina tre minuti di ripresa sotto un pesante strato di neve; in “Silence” è un artefatto in legno nascosto in una bara in fiamme.

Ora, “The Passion” è un film epocale, dove finalmente la croce è stata rappresentata e non solo romanzata; “Cristiada” è un film godibile, impreziosito più dal soggetto politicamente scorretto che da una suprema regia, ma di sapore forte e barricato, come un buon whisky (o simili); “Apocalypto” è onesto, ha capito che non si poteva dire in un film il prodigio della conversione latino-americana, anche perché dovuta a Guadalupe e non tanto ai missionari, e dunque ha detto poco, appena accennato. Restano Tarantino e Scorsese. Il primo sufficientemente nichilista e risoluto da potersi permettere di immortalare le cose come stanno: l’umanità senza Dio, un carnaio di corpi dilaniati e impallinati, destinati a decomporsi non appena la conserva invernale verrà meno; la religione, un concentrato di simboli sempre eloquenti e sempre muti, pietrificati, posti ai crocevia della vita, capace però di sopravvivere a stagioni e a carovane, a mode e a discorsi umani troppo umani.

Il secondo, ahinoi, cattolico, di quel cattolicesimo slavato di modernismo in nome della coscienza, per cui incapace sia di grandi gesta religiose sia di grandi gesta irreligiose: la fede è la codardia di un apostata troppo piagnucoloso per risolversi contro Cristo e troppo intellettualoide per risolversi per Cristo (ripeto: intellettualoide, a confronto col compagno di spedizione dimostra di mancare sin delle basi della teologia tridentina, che pure è semplice), non avendo accettato l’obbedienza “perinde ac cadaver” conclude la sua parabola abiurale da cadavere e si trova in mano un piccolo crocifisso di legno destinato a finire in cenere con lui, evidentemente concessogli come inutile amuleto da pietosi buddisti mai convertiti (la moglie di un altro che non si è scelto, mentre si era scelto la vocazione religiosa), sì che col prete fallito si realizza davvero lo spauracchio ventilato dal suo cedevole maestro (Ferreira): aver ridotto il Vangelo a una nuova superstizione nipponica, senza radici e senza futuro – appunto prigioniera del presente vuoto della coscienza.

Secondo step. I grandi registi sono immortalati dai loro film. Gibson confeziona due pellicole in poco tempo, nelle quali esprime un pensiero continuativo: chi è Cristo per me, chi è la Chiesa per me. Messaggio complessivo: Cristo è colui il cui sacrificio, perpetuato dalla Chiesa, estingue i sacrifici del mondo. Anche Scorsese fa il filotto, più nella forma di una inclusione, per cui la sua vasta produzione si vede coerentemente incorniciata tra “The last temptation of Christ” e “Silence”. Anche qui si risponde a due domande: chi è Cristo per me, chi è la Chiesa per me. Il Cristo di Scorsese era un fantoccio nevrotico, delineato sugli schizzi delle tradizione gnostica, la Chiesa di Scorsese è un feticcio in decomposizione pericolante sui residui della rivoluzione modernista (con tanto di gesuiti luteranizzanti). Il Cristo di Scorsese non comprende nulla del Padre e solo per un macchinoso colpo di scena finale accetta di salire in Croce, agisce mosso da costrizioni esterne e non da motivazioni interiori, si accorge di essere stato preso in giro; la Chiesa di Scorsese non comprende nulla di Cristo, i suoi consacrati scelgono la missione per ragioni umane – ritrovare un amico (i.e. salvate il soldato Ryan) -, non interiorizzano il senso dell’evangelizzazione, fraintendono completamente il valore della fede popolana e da ultimo, nell’impossibilità registica di elaborare un nuovo macchinoso colpo di scena finale, soccombono e, nella loro apostasia mai radicale, prendono in giro tutti. E si capisce!, rifiutano di agire per ossequiare al formalismo, seguono la propria coscienza puramente soggettiva, che li consegna all’unica cosa cui essa può consegnarci, al torbido eterno ritorno senza identità e senza utilità (il buddismo è il miglior alter-ego esoterico di tale annichilazione all’occidentale). Però, e di nuovo, troppo debole per saltare al vero nichilismo e troppo orgoglioso per accettare il cattolicesimo: a bientot, Nietzsche. Preferisco Tarantino, che almeno fa una scelta netta. In entrambi i casi, noto en passant, i protagonisti di Scorsese sono dei capelloni, barbettati e frignanti. In entrambi i casi, noto en passant, il Cristo e la Chiesa di Scorsese sono messi in scena a partire da romanzi e non dalla storia né dalla Rivelazione.

Terzo step. Una riflessione su Scorsese: cosa cambia a livello ecclesiologico tra “The last temptation” e “Silence”? Perché lì alla fin fine ci si piega all’osservanza esteriore della tradizione e qui ci si abbandona definitivamente alle maschere nicciane della coscienza? C’entra forse il mutato regime romano, ieri ancora capace di direttive magisteriali e oggi aperto al liberalismo teologico? Oppure, al contrario, non è che il mutamento romano abbia ispirato Scorsese, è che Scorsese, da grande artista, è davvero espressione (tragica) del suo tempo (tragico) e, persino, dell’evoluzione religiosa cattolica dell’ultimo cinquantennio. Sia come sia, la voce narrante conclude nel più francescano dei modi: solo Dio può giudicare – tra preti sepolti con rituali di bonzi e con l’eco di quel “padre Francesco” (Ignazio non ricordo se lo nominino) che al popolino ricorderà più che altro Assisi. Altro dettaglio da maestro, aver a suo modo descritto il ruolo unico del sacerdozio nell’irradicare il cristianesimo in una terra pagana: peccato averne poi celebrato l’abiura. Anche qui, spero sia solo per paranoia, vedo temibili parallelismi romani. E da ultimo, su Scorsese, questo elegante elogio della coscienza “absoluta”, questa esaltazione di una religiosità concreta da non giudicare, così in sintonia con le svolte pastorali concrete, coi capricci della coscienza credente, con le abiure almeno materiali della tradizione matrimoniale in casa cattolica… geniali conincidenze. Mi fermo, non senza ricordare che parlare di “Silenzio” di Dio in un film, in cui “de facto” il vero dio è il regista, impossibilitato a tacere sia pure per un solo momento, ha un che di paradossale e curioso.

Quarto step. Una riflessione su don Malatacca. Non so proprio chi possa essere don Malatacca, ma trovo il suo commento a “Silence” su Aleteia. Urgono un paio di osservazioni. La prima: prometto essere l’ultimo commento di un religioso allineato che oso leggere, dato che al prossimo sfoggio di modernismo politicamente corretto con tante sbavature teologiche e tante forzature ermeneutiche (contro la storia, forse anche contro il film-romanzo) rischio di abiurare. La seconda: il prete foggiano scrive che “i contadini sono semplici, chiedono segni tangibili di fede forse più della fede stessa, perché hanno bisogno, la loro fede è “a tatto”, ma è vera. Per una coscienza semplice calpestare un segno della fede è essenziale, è abiura o martirio; è come se calpestassero il Signore in persona”. E per un prete la fede è astratta? I segni della fede non gli sono essenziali? Nel momento in cui l’inquisitore chiede di bestemmiare il nome della Vergine (la frase campeggia nei sottotitoli dei cinema di tutto il mondo, ma io non ho il coraggio di riprodurla), il contadino non può farlo, mentre il prete sì? Ah beh, siam messi proprio bene e capiamo tante cose sul clero odierno. E poi, quello di padre Rodriguez, checché ne dica il Malatacca, non è un martirio – “Ha vissuto un martirio di vergogna, continuo, per non rinnegare il suo Signore” -, ma è la punizione per una scelta sbagliata, è un castigo divino (nel senso teologico del termine, un’auto-punizione che l’uomo si infligge, quando si ribella alla Verità).

Insomma, al solito i commenti della Chiesa sbragata sono peggio dei film di grido, sempre in ansimo per difendere l’indifendibile e per salvare tutto e tutti, tranne ciò che attiene agli imperativi del Cristo. Quanto a me, preferisco il Suo silenzio oggi alla sua condanna domani. E ora attendiamo il nono film di Tarantino, per risollevare lo spirito

Le ‘Tracce’ luterane di don Buzzi

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Non capirò mai come funziona la psicologia dei formatori di seminario, i quali temono come la scabbia qualsiasi riferimento alla Tradizione nella sua forma propria (liturgica e teologica in primis), mentre non avvertono alcun rischio nel mettere i loro studenti alla mercé di pesanti influssi ereticali (i convegni su Lutero riempiono i seminari ormai vuoti): o sono imprudenti, o sono malevoli, oppure non credono essi stessi che Lutero e soci valgano alcunché, né dunque che influenzino alcunché. Non lo capirò mai.

Più facile comprendere come mai un teologo o un dotto possa comportarsi similmente nei confronti del popolo cattolico, in sé poco preparato e facilmente influenzabile, posso comprendere che un cattedratico sia lontano dal cogliere le dinamiche di fede concreta e ordinaria e posso comprendere che a un cattedratico non interessi una mazza delle sorti del popolino (Marx salvaci tu, questi al popolo manco più l’oppio: la cicuta direttamente!).

Capirò sub condicione la presa di posizione di CL, movimento accattivante che mi sfugge e del cui lessico interno non riesco a decifrare mezza sillaba: mi sono pippato tutta la filippica di Carròn sulla “forma della testimonianza”, ma non ci ho cavato un ragno dal buco. Però sono sicuro che, condotto da un buon ermeneuta dell’Era Giussanica, potrò capire il loro linguaggio e dunque potrò capire certe linee seguite, per esempio, da Tracce.

Non fosse così, sarei obbligato a ritenere che il mensile ciellino sia scaduto ai livelli di Jesus e Famiglia Cristiana. Apro il numero di ottobre e trovo l’intervista al simpatico don Franco Buzzi. Buzzi è un ottimo studioso, ma appunto è uno studioso, uno che deve miscelare le sue conoscenze coi luoghi comuni dell’Accademia e della piega di decadenza ad essa connaturale. Il tema trattato è il rapporto Chiesa-luterani e i mantra sciorinati sono i soliti: i cattolici erano barricati e ora non più; i processi storici di cui fu protagonista Lutero non erano irreversibili; la politica ha piegato la teologia; ora siamo diventati amiconi; se Roma non avesse fatto la ‘fighetta’ avremmo evitato la spaccatura; in fondo tutti testimoniamo Cristo; io ho ragione e se qualcuno non è d’accordo è perché è carente di autostima (ha “paura”) e perché non ha fede (“la fede vissuta apre”).

Partiamo dal fondo: ma perché tutte le volte che coi progressisti parli di questioni storiche o dogmatiche e insomma teoretiche, hanno sempre bisogno di buttarla sul personale o sullo psicologico o sull’etico e insomma deviano il discorso (la fanno fuori dal vaso, per dirla in termini freudiani)? Io ritengo che si debba avere le palle di scegliere il campo di battaglia: l’offesa personale o il confronto teoretico; una volta scelto, i concorrenti sono pregati di non sottrarsi alle regole pattuite.

In attesa della scelta, considero più importante la ratifica tridentina e il sostegno di schiere di santi alla Controriforma rispetto alle chiacchiere da salotto di un qualsivoglia accademico, per cui, dovendo giudicare qualcuno, non giudicherò i santi riformatori carmelitani di non aver “assimilato fino in fondo l’appartenenza a Cristo”, né infamerò quanti di tali santi si fanno imitatori, ma al massimo – se mi costringete – accuserò i dotti poltroni contemporanei di aver perso lo smalto della prima e vera fede, in fondo a noi peccatori, dottorati o meno, valgono sempre ed ugualmente i moniti di Apocalisse: “Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima” (Ap 2,4).
Che poi si possa affermare una “comune testimonianza da rendere a Cristo” è vero quanto inutile: anche i mormoni la rendono e anche, in certo senso, i teosofi alla Gurdjieff. Ma cosa si testimonia? L’amore ai poveri e la cura del malato? Questo lo sanno fare anche atei e mangiapreti. Cosa? La Risurrezione? Sì, ma senza tanti e tanti elementi della fede che per un cattolico sono determinanti e non negoziabili. La verità è che per mettersi insieme, fianco a fianco, a dar una scodella di minestra ai poveri, non serve certo esser tutti cattolici, ma soprattutto – e qui sta il punto – non serve nemmeno fare alcun tipo di ecumenismo: ci si dona alla causa e basta.

Veniamo ora alle colpe di Roma. Buzzi sostiene: “Lutero si trovò nella situazione di dover ordinare pastori prescindendo completamente dalla Chiesa cattolica. La Chiesa di Cristo va avanti attraverso i Sacramenti e, non trovandosi nella condizione di poter procedere con il consenso di Roma, sono andati avanti senza”. Io mi chiedo se questa frase sia detta per scherzo o meno. Lutero non si trovò nella situazione di dover ordinare nessuno, Lutero al massimo si incaponì con superba testardaggine di dover ordinare preti. Nessuno mi costringe a divenire milionario, per cui non posso dirmi “costretto” a rubare e frodare a fini di lucro personale. Ecco un caso in cui calzava l’accusa di cui sopra: Lutero non ha avuto “fede”, ha avuto “paura” che il suo show decadesse, non ha saputo “appartenere a Cristo” e quindi si è ostinato nel disastro. No, ma la logica è un souvenir in certe aule e biblioteche. E Lutero è un santo. E io un astemio.

Di qui si passa al rapporto politica-fede: un intreccio mai banale, lo riconosco, ma che mi risulta piegato a una retorica troppo bolsa, se si vuole nascondere il trauma del credere imputando sempre tutto ai prìncipi e così nascondere la polvere dell’eresia formale sotto il tappeto dell’ambizione imperiale, a meno di ammettere che Lutero sia stato uno stolido imprudente, un guru improvvido, uno che pretendeva di “ministrari” e si è trovato – ahilui – a “ministrare” (l’opposto del Divin Maestro).

Quanto all’irreversibilità dei processi storici – quinto punto – concordo in pieno: poteva essere evitata la sciagura luterana, proprio per questo bisogna fare di tutto per evitare che gli influssi sterili di tale pianta si innestino nel cuore del cattolicesimo oggi.
Quanto alla comune amicizia, direi che è un puro nome. C’è un’amicizia di utilità, dovuta all’impostazione dello Stato di diritto, in cui si vive la pace contrattuale, mettendo tra parentesi l’opzione religiosa personale. Altro non vedo. Se devo dedicarmi alla fede, ho davvero poco da spartire col luterano. Anzi, dato che il credere è un fenomeno complesso, potrei trovarmi di fatto ad avere più punti di sintonia con l’islamico moderato che non con l’eretico ostinato. In ogni caso, non ci sgozziamo più a vicenda, questo sì, però non mi è chiaro se ciò sia l’effetto dell’ecumenismo o non invece, al contrario, ne sia la causa (da cui la semi-inutilità del medesimo).

E infine chiudo con la chicca del professore: “non esistono le basi per una reciproca scomunica”. Gran frase, peccato che la scomunica vige nella sua forma più alta: la negazione dell’intercomunione. Ma lui lo sa e infatti intendeva dire altro; ma anche io so che lui sa e che voleva dire altro ed è qui il problema: è giustappunto il momento di dire quell’unica cosa, che non c’è intercomunione perché c’è la scomunica (fatti salvi i documenti ecclesiali depositati), perché allora ci intratteniamo a parlare d’altro?

Una cosa ci giova a tirare le fila: la rivista che riporta l’articolo bomba è Tracce, mica il Timone, e allora mi spiego un po’ di più com’è che di tante cose ha lasciato un’impronta in questa sede, ma con nessuna di esse ci ha indicato una rotta affidabile. Oppure sarà che sono un pessimo segugio?

Poste vaticane: le commissariamo?

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Inizio a credere che il problema del Pontificato attuale sia solo un problema di poste, ne convenite?  Ho raccolto tre indizi e quindi ne ho la prova.

Il primo indizio è la quantità crescente di lettere che vengono spedite al Santo Padre, ma dopo mesi ancora non arrivano alla meta, costringendo così gli autori a rendere pubbliche le dichiarazioni delle missive: si tratti dei Dubia cardinalizi, della correctio filialis o di altri interventi di singoli teologi, quali l’ultimo del padre Thomas G. Weinandy, O.F.M (che pare sia stato costretto dal suo Vescovo a dimettersi da membro della commissione teologica internazionale). Firmata e imbustata nella memoria di S. Ignazio di Loyola, la confessio del cappuccino fino ad oggi non è riuscita a raggiungere le scrivanie pontifice – come altrimenti spiegarsi l’assenza di risposte, almeno in nome del bon ton? – e allora ecco che il teologo pur di farsi sentire è costretto a pubblicare le proprie riflessioni.

Il secondo indizio è il fatto che il Papa sia costretto a ricorrere alla Nuova Bussola Quotidiana per far avere il suo parere, nella fattispecie sto pensando alla correctio paternalis mossa al card. Sarah. Ma davvero un bravo corriere o un telefono – nei primi anni di pontificato devono averli consumati tutti – non è riuscito ad assolvere il delicato compito di raggiungere gli appartamenti cardinalizi? E sì che si lamentano tutti che ‘sti appartamenti siano pure belli grossi!

Il terzo indizio è il conio del francobollo Vaticano commemorativo della riforma luterana: Lutero e Melantone inginocchiati ai piedi del crocifisso. Non mi è chiaro chi farebbe la parte di Maria e chi di san Giovanni, ma tanto cambia, ormai uno si sceglie il sesso che vuole, per cui non mi scandalizzerei se Lutero stesso, poni caso, venisse proclamato donna ed elevato a culti specifici. In ogni caso, posto che il luteranesimo è definitivamente condannato da Trento, è ovvio che il nuovo francobollo non rispecchia la visione cattolica, ne consegue che qualcosa lì nelle Poste vaticane è andato storto.

E nell’attesa che i postini vaticani si ravvedano, restiamo con le parole di padre Weinandy: “Mi sono spesso chiesto: “Perché Gesù ha lasciato che tutto questo accada?” L’unica risposta che mi viene in mente è che Gesù vuole manifestare proprio quanto debole sia la fede di molti all’interno della Chiesa, anche fra troppi dei suoi vescovi. Ironia della sorte, il suo pontificato ha dato a coloro che sostengono punti di vista teologici e pastorali rovinosi la licenza e la sicurezza di uscire in piena luce e di esibire la loro oscurità precedentemente nascosta. Nel riconoscere questa oscurità, la Chiesa umilmente sentirà il bisogno di rinnovare se stessa e così continuare a crescere in santità”.