Confessione: torni la formula antica

Apparso su Campari & de Maistre

La situazione è grave, non c’è che dire. Vi è un limite oggettivo e storico – quello che suggerì già a Pio XII e definitivamente a Giovanni XXIII la necessità di una grande Assise della Catholica in cui svolgere critica ed autocritica dello status quo -, si riscontra cioè da anni una crisi di incidenza della Chiesa nel mondo moderno e contemporaneo. Specificamente poi è innegabile una crisi del sacramento della Confessione e del senso di peccato e conseguente bisogno di salvezza. Da parte sua il dialogo interreligioso, nella misura in cui si attardi ad affermare che tutti sarebbero figli di Dio dalla nascita e che per ciò stesso la loro salvezza sarebbe fuori discussione (salvo scelte morali particolarmente eclatanti), non aiuta certo a sanare la dimensione oggettiva della crisi. A ciò si aggiungano i frutti del presente pontificato, ormai più facili da vagliare, sebbene sia prudente attendere altre annate per una giudizio che si voglia fermo e certo: sembrano definitivamente tramontati i mesi dell’entusiasmo iniziale, quelli in cui un fedelissimo come Massimo Introvigne si peritava di informarci a riguardo dell’incremento di confessioni suscitato dallo stile pastorale di Sua Santità Francesco. “Che l'”effetto Francesco” abbia indotto molte persone a tornare in chiesa e a confessarsi, specie nel periodo di Pasqua, non è più solo un’impressione ma un dato di fatto. Anche in Italia. Lo ha confermato una ricerca del CESNUR, l’istituto di ricerca sulle religioni diretto dal sociologo torinese Massimo Introvigne, presentata il 15 aprile a Torino”.

Si trattasse di effetto Francesco o di effetto Benedetto XVI (leggasi a riguardo il finale dell’articolo appena citato), allo scoccare del 2016, ad Anno giubilare pienamente e saldamente avviato, altre sembrano le risposte del popolo cristiano.

I fatti sono questi. Dall’apertura dell’Anno Santo voluto da papa Francesco e in occasione delle festività natalizie del 2015 – così come da quando Jorge Mario Bergoglio siede sulla cattedra di Pietro – il numero dei fedeli che si è accostato al confessionale non è aumentato, né nei tempi ordinari, né in quelli festivi. Il trend di una progressiva, rapida diminuzione della frequenza della riconciliazione sacramentale che ha caratterizzato gli ultimi decenni non si è arrestato. Anzi: mai come in prossimità di questo Natale i confessionali della mia chiesa sono stati ampiamente disertati”. Viene scritto in una lettera pubblicata da Magister.

Ciò che turba è che i fedeli si appoggino al Magistero, o almeno alle dichiarazioni quotidiane del Pontefice, per giustificare l’uso magico della fede e l’arresto di un serio cammino interiore di conversione (che è quanto di meno antropocentrico si potesse immaginare). Sono persuaso che non siano questi gli esiti auspicati dal Papa, ma di essi il Santo Padre porta ahilui la prima responsabilità.

“Due esempi valgano per tutti. Un signore di mezza età, al quale ho chiesto, con discrezione e delicatezza, se era pentito di una ripetuta serie di peccati gravi contro il settimo comandamento “non rubare”, dei quali si era accusato con una certa leggerezza e quasi scherzando sulle circostanze non certo attenuanti che li avevano accompagnati, mi ha risposto riprendendo una frase di papa Francesco: “La misericordia non conosce limiti” e mostrandosi sorpreso che ricordassi a lui la necessità del pentimento e del proposito di evitare in futuro di ricadere nello stesso peccato: “Quel che ho fatto ho fatto. Quel che farò lo deciderò quando uscirò da qui. Come la penso su ciò che ho compiuto è questione tra me e Dio. Sono qui solo per avere quello che spetta a tutti almeno a Natale: poter fare la comunione a mezzanotte!” E ha concluso parafrasando l’ormai celeberrima espressione di papa Francesco: “Chi è lei per giudicarmi?”.

Una giovane signora, alla quale avevo proposto come gesto penitenziale, legato all’assoluzione sacramentale di un grave peccato contro il quinto comandamento “non uccidere”, la preghiera in ginocchio davanti al Santissimo Sacramento esposto sull’altare della chiesa e un atto di carità materiale verso un povero nella misura delle sue possibilità, mi ha risposto seccata che il papa aveva detto pochi giorni prima che “nessuno deve chiederci nulla in cambio della misericordia di Dio, perché è gratis”, e che non aveva né tempo per fermarsi in chiesa a pregare (doveva “correre a fare gli acquisti natalizi in centro città”), né soldi da dare ai poveri (“che tanto non ne hanno bisogno perché ne hanno più di noi”)”. (Ibidem)

Ecco il mio consiglio, tra il serio e il faceto. Nell’attesa che Roma parli per risolvere almeno il chaos ingeneratosi tra i fedeli, i sacerdoti più zelanti sono invitati a tornare all’antica formula assolutoria, pienamente valida e altamente istruttiva. Leggiamola come si presenta nel Rituale Romanum:

“Quando il Sacerdote vuole assolvere un penitente, dopo avergli imposto una salutare penitenza e dopo che il penitente l’ha accettata, dice dapprima: Misereatur tui omnipotens Deus, et dimissis peccatis tuis, perducat te ad vitam æternam. Amen.
Quindi con la mano destra elevata verso il penitente, dice: Indulgentiam, absolutionem, et remissionem peccatorum tuorum tribuat tibi omnipotens et misericors Dominus. Amen.
Dominus noster Jesus Christus te absolvat: et ego auctoritate ipsìus te absolvo ab omni vinculo excommunicationis, (suspensionis), et interdicti, in quantum possum, et tu ìndiges. Deinde ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris, et Filii, + et Spiritus Sancti. Amen.
Se il penitente è un laico, omette la parola suspensionis. Il Vescovo nell’assolvere i fedeli fa tre segni di croce.
Passio Domini nostri Jesu Christi, merita beatæ Mariæ Virginis, et omnium Sanctorum, quidquid boni feceris, et mali sustinueris, sint tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiæ, et præmium vitæ æternæ. Amen”.

E così ci ricordiamo al contempo: che se il fedele rifiuta la giusta penitenza è lecito negargli l’assoluzione (non per ripicca, ma per trasparenza: nessuna assoluzione in assenza di contrizione); che il sacerdote pur sempre assolve nei limiti del proprio potere (in quantum possum), che sono fissati anzitutto dalla Legge Divina, con buona pace delle Conferenze Episcopali e dei Sinodi e tanto più delle riletture arbitrarie che il laicato realizza a partire da interviste del Pontefice; che peraltro, laddove ci sia reale pentimento, la Misericordia divina agisce con frutto, superando addirittura i limiti umani di confessore e penitente, la loro ignoranza, la loro pusillanimità (in quantum… tu indiges).

La Chiesa liquida, l’esorcista impotente e il liturgista queer

Apparso su Campari & De Maistre

Vittorio Messori avrebbe indicato l’attuale situazione cattolica sotto il pontificato di Francesco con l’espressione di sapore baumaniano di “Chiesa liquida” . Tralascio dal fare considerazioni, che tanto non interesserebbero e ne approfitto per richiamare ad un altro evento, decisamente collegato al presente, di cui ho fatto la scoperta questa estate.

Si tratta del curioso caso di esorcismo fallito su Anneliese Michel, divenuto noto di recente per la pellicola “L’esorcismo di Emily Rose”. Ci sono alcune cose terribilmente chiare ed altre terribilmente oscure in questa storia. Quelle chiare riguardano la crisi di fede della Chiesa negli anni Sessanta, lo scetticismo relativo a demoni ed esorcismi, nonché la curiosa coincidenza per cui la famiglia Michel era di orientamento tradizionalista. Questo il contesto in cui la giovane Anneliese diviene vittima di possessione diabolica, torturata tra psichiatri positivisti e fedeli modernisti.

Le cose terribilmente scure che indicherei in tale sede sono invece due. La prima è il fatto che la ragazza non sia sopravvissuta all’esorcismo, il che è fatto strano e forse unico, nonostante ci siano tracce di possibili colloqui di Anneliese con la Vergine e conseguentemente di una investitura particolare della sua missione: un esorcismo fallito e una possessione efferata per rilanciare la consapevolezza del mistero demonologico nel mondo  e nella Chiesa. Non che sia servito moltissimo, verrebbe da dire, a giudicare dalla modalità con cui si sono perpetuati i rituali esorcistici nel post-concilio (ne ho già parlato sul mio blog personale:  si veda il finale, dove riprendo la storia della fortunosa conservazione del rituale tradizionalista). O anche un sacrificio volontario in espiazione dell’incredulità di tanti battezzati e pastori: questo sembra più pertinente.

La seconda componente oscura riguarda il messaggio, che in realtà non è tale, dei demoni. I demoni di Anneliese non dicono più nulla, prima rantolano e poi finiscono col tacere, lacerando il corpo della ragazza nel silenzio. Provo a tradurre le considerazioni finali del testo:

“I nuovi demoni senza nome hanno ora il campo per sé. Essi trattengono la voce di Anneliese, ma non hanno nulla da dire, proprio nulla. Giocano con essa in modo casuale, emettendo suoni inumani, insensati, neutri. Per un po’ temporeggiano, strattonando il corpo della ragazza come fosse una bambola di pezza, mentre lei affonda verso la morte. Ciò che i demoni testimoniano è che, con tutta la sua crudeltà, il vecchio sistema era ancora umano e aveva ricompense e rimedi umani. C’era il peccato e c’erano i demoni, ma c’era assoluzione per l’uno ed esorcismo per gli altri. I nuovi demoni che stanno emergendo dagli incubi di questo secolo terribile sono al di fuori dell’ordine umano. “Puoi pregare quanto vuoi, puoi gridare in cerca di aiuto, è inutile, i cieli sono sordi” ha detto Anneliese. Lei sapeva. Mentre stava chiamando gli dei del suo mondo in aiuto, lei si sentiva vittima dei nuovi demoni del suo tempo. E per essi non c’è esorcismo” (F. Goodman, The exorcism of Anneliese Michel, Resource Publication, p. 251).

Questa riflessione è tutt’altro che banale: i nuovi demoni e i nuovi peccati restano senza esorcismo e senza assoluzione; sono forse meno strutturati e definiti dei precedenti, ma questo non significa affatto che siano meno micidiali, significa solo che non puoi redimertene. Una Chiesa che non condanna è solo una Chiesa che non salva.

Per concludere, consentitemi una riflessione conclusiva che traggo da un vecchio testo di Introvigne. Il punto fondamentale è quello troppo disatteso del ruolo esorcistico della Liturgia, cui mi permetto di dare una lettura indubbiamente originale, ma non perciò inadeguata. La liturgia ben fatta scaccia i demoni. Di nuovo: questo è il cuore del mio articolo “L’ultimo liturgista”. In particolare, la liturgia in latino è da annoverare tra le liturgie meglio fatte. Vale anche il contrario: la cattiva liturgia non scaccia nessuno (tranne i fedeli). Ma vale anche il rovescio: i demoni prediligono una liturgia sciatta. Ne è prova appunto una ricostruzione di Introvigne dal suo Satanisti (testo vecchio seppur rieditato con ampliamenti nel 2010), in cui si recensisce il passaggio dall’epoca di Satana a quella di Set (iniziata nel 1975, ad onor di cronaca):

“Nell’eone di Satana il satanista pensava di avvicinarsi a Satana tramite il rituale. Da oggi il ‘setiano’ [seguace del Tempio di Set] deve disprezzare ogni recitazione, perché usare un testo scritto da qualcun altro è un affronto al sé. Parlami piuttosto come un amico, gentilmente e senza paura, e ti ascolterò come un amico” (Satanisti, p. 298).

Insomma, Set oltre Satana, e Set vuole incontrare gli uomini facendo a meno di rigidi rituali: Set è per una chiesa liquida. Non sto dicendo che Francesco sia un setiano. Non mi interessa molto di cosa sia Francesco.

Sto dicendo che l’umanità veleggia verso il proprio dramma e il proprio dramma è condito di alcuni elementi: la liquidità, la paralisi nei peccati, il soffocamento tra demoni muti, liturgie sciatte, promesse di amicizie spirituali senza vigore, il tutto orientato ad una e una cosa soltanto: l’esaltazione esasperata del sé.

E insomma, decisamente contro questo si è incarnato il Cristo. Il Papa e i suoi, proprio perché non sono setiani, si ravvedano e facciano i conti con i costumi di questo tragico nuovo inizio millennio, distanziandosene.

L’ottava parola di Cristo in croce

Ad oggi si conoscevano e veneravano per tradizione le sette ultime parole di Cristo in croce

  1. “Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)
  2. “In verità, ti dico, oggi tu sarai con me in paradiso” (Lc 23,43)
  3. “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre” (Gv 19,26)
  4. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; cfr. Sal 22[21],2)
  5. “Ho sete!” (Gv 19,28)
  6. “È compiuto” (Gv 19,30)
  7. “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46; cfr. Sal 31[30],6)

Esse divennero fonte copiosa di meditazione nel corso dei secoli. Da esse furono tratte devozioni popolari

La devozione alle “Sette parole di Gesù Cristo sulla croce” risale al XII secolo. In essa vengono riunite quelle parole che secondo la tradi­zione dei quattro Vangeli sono state pronunciate da Gesù sulla croce all­o scopo di trovarne motivi di me­ditazione e di preghiera. Attraverso i francescani essa attraversò tutto il Medioevo e furono collegate alla meditazione sulle “Sette ferite di Cristo” e reputate rimedio contro i “Sette vizi capitali”.

Ma anche importanti opere artistiche in musica firmate da maestri quali Haydn, Mercadante, Perosi, Franck e via dicendo

 

Da ultimo però un manoscritto rinvenuto nei mercati di Alessandria, probabile prossimo soggetto di un romanzo browniano, avrebbe svelato una ottava parola, censurata pare per influsso di una pressione encratita su un qualche Sinodo orientale di epoca post-apostolica.

“Quam diu, Domine?”
Iesus dixit: “Multum ac diu, recumbere potestis”

Dal frammento non è stato ancora possibile dedurre da chi venga posta la domanda. L’insegnamento gesuano però è chiaro: l’agonia sarà lunga, quindi “potete sedere”.

Al di là di ulteriori riflessioni in merito, è chiaro come da questa integrazione dipendano le più aggiornate scelte pastorali, quelle per le quali quando si legge un vangelo troppo lungo – è il caso dei pedantissimi vangeli di Quaresima anno A – il prete si premura di confortare biblicamente la sua assemblea: “potete sedere”.

Che poi il frammento in questione sia stato oscurato non stupisce eccessivamente, in fondo la cosa fa sorridere e giustamente lo stesso Augias avrebbe dichiarato davanti alla scoperta: “embé, non poteva spirare più velocemente questo ebreo rivoluzionario?”

Novus e vetus ordo, un parallelo funereo

Apparso su Campari & De Maistre.

Oggi mi sento in vena di ecumenismo. E vado in cerca di ciò che ci unisce. Di ciò che unisce la Forma Ordinaria del Rito Latino (FO) alla Forma Extra-ordinaria del medesimo Rito (FE). E trovo il trait d’unionnella celebrazione odierna – In commemoratione omnium fidelium defunctorum – o anche, se vogliamo, nelleMissae pro defunctis in generale.

E’ infatti cosa evidentissima per chi conosca la FE, quale e quanto sia lì lo scarto tra la celebrazione feriale e quella di suffragio. Se ne accorge massimamente il celebrante, e chiunque con lui abbia la pazienza di soffermarsi sulle indicazioni del rubricale.

Anzitutto la FE chiede che nelle messe per i defunti sia omesso integralmente il salmo 42, cosicché la cerimonia si trova ad iniziare ex abrupto dalConfiteor. Similmente vengono decurtate la preghiera di purificazione prima della lettura del Vangelo, che di tre parti – Munda cor meum, Iube Domine, Dominus sit – ne mantiene solo una; e le preghiere precedenti la Comunione – Domine I. C. qui dixisti, Domine I. C. Filius Dei vivi, Perceptio corporis tui – che sono ridotte a due.

 L’Agnus Dei conosce una variazione nelle risposte. Ed ugualmente varia la conclusione del rito, cui vengono omessi il congedo abituale e la benedizione. Cadono alcuni gesti: il segno di croce all’Introito (modificato più che annullato), il bacio del Vangelo, il segno di croce sull’ampollina dell’acqua all’Offertorio, il percotimento del petto all’Agnus Dei.

Che dirne? La celebrazione si fa greve. Qualcuno dirà: lugubre. Secca e asciutta. Quasi che il gesto liturgico del celebrante porti con sé la pesantezza ed il dolore del popolo che piange i propri morti. E questa morte riveste con potenza il sacerdote, che si paramenta tutto in nero – non così il paliotto dell’altar maggiore né il conopeo, luoghi della presenza del Santissimo, di Colui che è Vita: qui un violetto è l’estrema variatio cromatica concessa – econ ciò davvero sembra, il sacerdote, non aver più la forza di benedire, di baciare, di salmeggiare, di battersi e pregare.

Scompaiono – quasi dimenticavo – anche i gloria (all’Introito e Lavabo) ed i relativi inchini. Scompaiono le preci che elargiscono sul popolo la pace: ora che i morti, se pace avranno, dovranno  chiederla direttamente al Giusto Giudice e non da noi mortali.

Tutto nel rito di suffragio mostra dunque che la ferita della morte preme stancamente e raccoltamente sul sacerdote, il quale realmente va così facendosi carico delle angosce del popolo fedele e affranto. Mentre troneggia quasi al cuore della funzione, ritmata e inesorabile, la Sequentia: Dies irae, dies illa.

E ora a noi e all’ecumenismo.

Un ecumenismo triste, se mi è concesso dirlo con ironia nel giorno grigio dei morti affidati a Dio. Sì, perché guardi e vedi come in fondo l’Ordinario feriale della FO sia piuttosto simile al rito funebre della FE.

Com’è la Messa odierna? Inizia, quasi di botto, con un Confesso magro e sbrigativo, procede sveltamente in un decurtamento generale delle parole e delle azioni. Pochi sono gli inchini comandati, e meno ancora quelli che in effetti si fanno. Saccheggiati i segni di croce, depennati al minimo i simboli del pentimento. Di tre preci all’Evangelo la FO ne tiene una, di tre alla Comunione due; l’Agnello di Dio è variabile; il finale pure.

Ho promesso, e lo confermo, di voler essere ironico. E’ nel mio stile. Eppure non può sfuggire del tutto, per quanto concesso al variare dei simboli e alla creatività liturgica attuale, che la santa Messa d’oggi è così: breve e secca, asciutta. Quasi da funerale?

Stando alle norme, andrebbe fatta – per esser schietti – sempre con canti, e con silenzi intelligenti e con ampi coinvolgimenti di popolazione. E questo ne darebbe lo splendore, per me pur sempre un poco modernista, ma in sé aggraziato e tale da salvarne la sublimità. Ahimè, silenzi attori e canti di solito fan pena oppure latitano.

Per cui, daccapo, la Messa quotidiana, per noi che del perenne rito siamo gli inossidabili amatori, e dell’ammodernato bistrattato vittime, ha un che di affranto sottiliforme smorto. Come una volta – appunto – nella Missa da morto. E in più senza neppure quel vigore che il nero, il tumulo e il Dies irae vibravano ad ogni movimento.

Ciò basti. Non tanto per dir male di un rito che la Madre Chiesa oggi promuove ed ama, ma per spronare chi della nuova forma ha cura, a celebrare bene, con scrupolo e con zelo. Ogniqualvolta il prete moderno con fare distratto sciupa tempi e cadenze del santo Sacrificio, mostra a sé e al mondo di stare celebrando non per i vivi ma per i defunti. Non vivo, lui stesso, ma sciupato e storto. Prete in nero – non nel vestire, ma nell’intenzione – prete da morto.

Che poi nel dì dei morti troviamo tanti stimoli a dire della liturgia nelle sue forme, è cosa che stupisce poco o nulla. In fondo qui si gioca tutta la sfida del liturgico e del dottrinale: attorno al senso di una vita che, con Cristo Crocifisso, dia senso ai morti, ai preti, ai riti, e al nostro quotidiano decadere.