Greggevacantismo?

Riprendo con le presenti righe uno dei miei ultimi articoli, relativo alla pagliacciata delle scimmiette sulla facciata di San Pietro dello scorso otto Dicembre. Ho notato una discreta eco a riguardo di quello sfogo, la quale da un lato ha sovrastimato il senso molto circostanziato dei miei appunti, dall’altro offre l’occasione di parlare del tema che mi sta crescentemente a cuore: il plebevacantismo o greggevacantismo. Andiamo per step. Dapprima risponderò ai miei zuavi detrattori, tra i quali non mancano coloro che a mio giudizio difendono il Papa per difendere se stessi (dal dolore di riconoscere la crisi ecclesiale patente) o i loro interessi (curiali, politici, culturali e via dicendo). Poi esumerò i residui di un articolo mai scritto, relativo al mio disappunto post-sinodale. Infine, a partire dal ‘mai scritto’, esporrò il mio concetto di plebevacantismo.

Agli zuavi e agli altri: facciamo un brindisi, prima alla coscienza e poi al Papa. Il tema caro a Newmann, poi ripreso da un insospettabile pastore tedesco, quale fu Benedetto XVI, avrei piacere potessimo metterlo sul tavolo nuovamente, per vedere se nell’era bergogliana, quella della Chiesa in uscita e finalmente libera, ci sia ancora un posto per la coscienza umana, oltre che per la coscienza gay (questa sembrerebbe assicurata, buon per loro). Nel precedente attaccavo San Pietro in quanto struttura edilizia, importante per la carica simbolica da secoli rivestita, ormai offesa ed infangata ad interim dalla zoofilia. Il tucano su San Pietro è un’idiozia, questo asserisco in coscienza e nemmeno il Papa potrà smuovermi. Non voglio avere a che fare con San Pietro per il prossimo anno – periodo convenzionale -, non voglio associarmi alle meduse o al bonobo – idolo sessuale anche per il discorso di inizio 2016 di Balasso – che lecca il Cristo Buon Samaritano. È questo sedevacantismo? Do allora il benvenuto ai nuovi adulatori di statue. No, non è sedevacantismo, io non entro in merito sullo status di Bergoglio, personalità opinabile e fuggente, di cui  rispetto e accolgo i pronunciamenti ufficiali, facendo epoché sul resto, io mi limito a ripudiare fino alla prossima Immacolata i sassi dell’edificio di San Pietro. Infine, e qui chiudo il primo punto, voci di corridoio dicono non essere stato entusiasta del circo neppure lo stesso Pontefice: sarà lui pure un bieco nemico di Roma? Rispondano gli zuavi.

Qui un anticipo del terzo passaggio: il problema cattolico c’è ed è grande. Non so quanto ciò dipenda dal Santo Padre e dalle sue scelte, non so quanto queste ultime siano intenzionali e programmatiche, ma so che al di fuori di Santa Marta e di San Pietro la crisi di fede e identità cattolica si taglia ormai con l’accetta ad ogni livello di vita e struttura ecclesiale.

Ora sostiamo sul secondo punto, che esemplifica e raccorda i restanti due. Un merito e un aneddoto: rendo merito al lavoro di Agnoli che nei giorni immediatamente successivi al Sinodo sulla Famiglia ha preso nota delle dichiarazioni dubbie o tendenziose emerse dall’interno della stampa cattolica. Galeazzi, Falasca, Tornielli, il Sussidiario, Valente, Spadaro sono alcuni dei giornalisti giudicati per il loro operato ideologico o parziale, lascio qui di seguito alcuni rimandi: qui qui qui qui qui qui e qui.

Su tutti valga l’aneddoto di TV2000, con un servizio di Cristiana Caricato in cui l’inviata della televisione della CEI incalza il card. Bagnasco, cercando di strappargli una dichiarazione sulla liceità di amministrare la Divina Eucaristia ai divorziati risposati, dimenticando il ruolo meramente consultivo del Sinodo, nonché forzando la lettura del fatidico numero 85. L’imbarazzo del cardinale mi pare sufficiente a dire del nulla di cattolicità in cui ci troviamo dispersi. L’ideale della buona vecchia massoneria è coronato: ormai è dall’interno, dalle stesse emittenti cattoliche, che avviene la demolizione delle verità e dei valori basilari della nostra fede. Non accade per cattiveria – sarebbe troppo facile da controbattere -, ma nella buona fede dello spirito profetico del laicato post-conciliare (lo criticò pressoché solo Benedetto XVI e la cosa non pare avergli giovato). Torniamo a noi: credete che lo spettatore medio abbia raccolto la risposta puntuale e pacata di Bagnasco, o non avrà piuttosto assorbito la concitazione rivoluzionaria dei commenti in studio? Mi fermo. Avrei voluto seguire ulteriormente le notizie, ma confesso di esser stato preso dalla Sindrome di Don Chisciotte. A che pro spendersi nella denuncia, quando dovremmo ormai denunciare la quasi totalità delle frontiere della comunicazione cattolica, delle curie e curazie, dei forum laicali?

Chiarisco – ed eccoci all’ultimo step – lanciando l’accusa di plebevacantismo, termine volutamente impreciso, che desidera solo muovere la riflessione e magari la preghiera di qualche lettore di buona volontà. Francesco sta facendo bene o male? Prudenza insegna che in lui come in ogni uomo ci sarà del sano e del marcio e lasciamo ai tempi futuri la sentenza. Chi sicuramente sta facendo male è quella fetta troppo ampia di popolo che, sedotta da ermeneutiche mass-mediatiche, tratta entusiasticamente qualsiasi banalità del Pontefice, caricando di peso magisteriale fin le ultime espressioni della sua umanità più fallibile, nonché – va detto – qualsiasi fake buonista e deista abusivamente attribuito al Pontefice stesso. Il fatto schietto, a prescindere da qualsivoglia analisi ulteriore, è che manca a questo Papa il sostegno di un laicato, di un presbiterio e di un episcopato maturo, preparato, virile, genuinamente cattolico, propriamente responsabile ed adulto. Se poi si pensa al passaggio dall’austerity benedettiana ai clamori franceschiani, alla facilità e disinvoltura con cui pastori e pecore han glissato dall’uno all’altro registro, la domanda inevitabile è se il popolo fosse ipocrita prima, se sia ruffiano ora o peggio se il cattolico sia un burattino senza sapienza, che corre come un automa dietro ad ogni anche minimo desiderata del Papa in carica. Io non so rispondere, però è sicuro che, con un popolo religiosamente più maturo, anche le stramberie effettive o presunte di Bergoglio risulterebbero limate. Certo, pur con tutti questi distinguo, è difficile sottrarsi infine all’estrema quaestio: chi mai dovrebbe riformare il gregge disperso, se non il suo pastore? Mi epochizzo.

Romano Amerio e il sinodo dei giovani

Pubblicato su Campari

“Se non lo trovi nella Summa, cercalo in Iota Unum”. Non mi ricordo chi lo dicesse, ma credo sia un consiglio che non si discute: si applica. Lo applico all’argomento fuffa dell’anno, la preparazione al Sinodo dei Giovani. E inizio pure a chiedermi cosa c’entri e come mai si affianchi questo nuovo evento ecclesiale con le tristi iniziative antiliturgiche a antidogmatiche in auge, generalmente sussumibili nell’etichetta ‘luteranizzazione della Chiesa e demolizione della medesima’. Forse che i giovani sono il grimaldello da agitare contro la tradizione?

Andiamo per gradi e proviamo a sfogliare insieme il capitolo che Romano Amerio dedicò ai rapporti tra Chiesa e gioventù. Si tratta dell’ottavo capitolo dello Iota, composto di soli quattro paragrafi §§85-88 (pp. 186-192, ed. Lindau).

§85. Cominciamo dal paragrafo 85, nel quale il filosofo luganese presenta la visione classica relativa alla gioventù e all’educazione. La giovinezza è una “età di imperfezione naturale e di imperfezione morale”, in cui vige più che mai il “periculum tentationis” (S. Agostino). Per questo il giovane ha bisogno di maestro, in quanto “è un soggetto in possesso della libertà e deve essere formato ad esercitare la libertà”. E qui sta la delicatezza del compito educativo, che si trova ad “avere come oggetto un soggetto” e ad esercitare dunque un’azione che è “un’imitazione della causalità divina” secondo che “produce l’azione libera dell’uomo proprio in quanto libera”. Ne discende, nell’ottica dell’Amerio e dei classici, l’imperativo: “non si può trattare… i giovani come maturi, i proficienti come perfetti…, il dipendente come indipendente”.

§86. Il secondo paragrafo presenta le variazioni culturali contemporanee più evidenti a livello culturale in ambito pedagogico. Tradizionalmente il primo compito del pedagogo era presentare alla gioventù l’intero della vita, che è “difficile o, se si vuole, seria” a causa della natura debole e incline al male dell’uomo. A partire da ciò l’individuo veniva chiamato non a “realizzarsi, ma a realizzare i valori per cui è fatto”, con tutta la mole di fatica e impegno che ciò comporta. Ed ecco la variazione: oggi – Amerio scrive negli anni ‘80 – la vita è presentata come gioia, l’obiettivo è posto nel realizzarsi, gli ostacoli conseguentemente appaiono solo come scandali ingiusti, mentre gli adulti rinunciano all’esercizio dell’autorità “per voler piacere”.

§87. A questo punto Amerio entra in merito alla dimensione religiosa ed accusa due discorsi pontifici di aver progressivamente variato la lezione cattolica su giovani ed educazione. Anzitutto si rimanda al discorso di Paolo VI del 1971 ad un gruppo di hippies: i quattro suggerimenti papali, contestati dal nostro autore, sono la spontaneità, la liberazione da certi vincoli formali e convenzionali, la necessità di essere se stessi e lo slancio a vivere e interpretare il proprio tempo. Quattro indicazioni ove oscure (essere se stessi?) ove contraddittorie (es. spontaneità vs ricerca). Interessante la chiosa dell’Amerio “certo il Papa parla qui opinativamente e non magistralmente”. Nel discorso del 3 gennaio 1972 andiamo peggiorando e si approvano il naturale distacco dal passato, il facile genio critico, l’antiveggenza intuitiva dei giovani. Anche qui le critiche puntuali e concise non si risparmiano (lascio a voi di andarle a leggere nel testo), mentre il Papa è visto inclinare sull’onda dell’entusiasmo verso una “dossologia della gioventù”.

§88. Il quarto paragrafo esamina alcuni discorsi dell’episcopato elvetico – Amerio era legato a quelle diocesi e sovente nel suo Iota porta ad esempio la decadenza delle medesime. Riporto per intero la sezione correttiva redatta dall’autore, in essa si confutano uno ad uno gli ideali precedentemente sollevati dai pastori svizzeri nelle allocuzioni citate dal testo: “l’autenticità, in senso cattolico, non consiste già nel porsi come naturalmente si è, ma nel farsi come si deve essere, cioè ultimamente nell’umiltà. La disponibilità poi è per sé adiafora e si qualifica come buona soltanto dal bene cui l’uomo si rende disponibile. Il rispetto dell’uomo esclude il disprezzo del passato dell’uomo e il ripudio della Chiesa storica. L’insofferenza della mediocrità, oltre a mancare di determinatezza, è contro la saggezza antica, contro la virtù di contentamento e contro la povertà di spirito. Che poi siamo in presenza di nuovi traguardi umani e religiosi è affermazione che… dimentica non esserci altra creatura nuova oltre a quella ri-fondata dall’uomo-Dio, né altri traguardi che quelli da lui prescritti”.

Non si aggiunge molto altro in Iota Unum, ma quanto riportato può bastare per avere l’attrezzatura concettuale minima ad affrontare le retoriche dei prossimi mesi.

Anzi, alla luce della riflessione ameriana scaturiscono purtroppo un paio di considerazioni ulteriori.

La prima è che, nonostante tutto l’affetto che chi scrive prova per il beato Paolo VI, è innegabile che davvero in certi discorsi di allora si siano già creati i precedenti per un paradigma comunicativo pontificio debole e ambiguo, schiavo dei tempi (in senso storicistico: esser vittima delle mode culturali) e ben poco edificante di per sé. La seconda è che si fa strada una tentazione, accennata nell’incipit dell’articolo: forse l’attenzione del Papa per i giovani ha solo uno scopo strumentale – e quindi intrinsecamente anti-pedagogico, perché tratterebbe i soggetti come meri oggetti – finalizzato ad alimentare il disprezzo per la tradizione e la rincorsa del nuovo per il nuovo, agitando contraddizioni, ideali indeterminati, sogni pericolosi? Lo scopriremo. Ma speriamo di non perdere anche i giovani, dopo aver perso la famiglia e l’Eucaristia.

Mi Expongo

La mia fonte più aggiornata sull’Expo è mia madre, nel senso che io non seguo l’evento.

Expo2015

Mia madre si è detta entusiasta del discorso di apertura dei vari esponenti. Io, probabilmente incorrendo in peccato contro il Quarto, l’ho insultata.

Anzitutto l’ho insultata perché, dopo decenni di imbonimento da parte dei sindacati, non ha ancora sviluppato un fiuto di critica e sospetto nei confronti dei demagoghi di turno.

Poi l’ho insultata perché trovo incomprensibile il suo tentativo continuo di piegarmi al plauso del popolo-bue.

Venendo ai fatti. “Renzi, Pisapia… che belle parole”. Così la mamma.

Trovo più belle, negli stessi giorni, le parole di D’Attorre a Omnibus.

Il DEF, per chi non lo sapesse, è QUESTO documento.

Mi capite? I politici sanno, i giornalisti sanno quali sono le possibilità di ripresa e sviluppo, sanno quali sono i confini e le durate della crisi, ma a noi non dicono nulla, o lo dicono in modo tale da passare ignorato a tutti.

Però fanno bei discorsi all’Expo.

Ecco il primo elemento che mi rende totalmente distaccato dal tema.

Continua la madre: “è intervenuto anche il Papa”. Immaginando il copione, l’ho incalzata: avrà parlato dei poveri e dell’importanza di uno sviluppo che tenga conto di tutti. Ho indovinato. Poi ho chiesto a mamma se il Papa avesse parlato di Gesù. Non mi ha risposto.

Sono andato alle fonti. Il discorso riportato su Vatican.va non contiene il nome di Gesù – ignoro se ci sia nel video, non guardo video del Papa – ma contiene un riferimento al “Figlio di Dio”, al “pane quotidiano”, all'”amore” e alla “energia di vita”. Soprattutto però il video messaggio insiste sul tema caro a Francesco, quello tutto antropocentrico e in parte pauperocentrico:

[Il tema] sia sempre accompagnato dalla coscienza dei “volti”: i volti di milioni di persone che oggi hanno fame, che oggi non mangeranno in modo degno di un essere umano. Vorrei che ogni persona – a partire da oggi –, ogni persona che passerà a visitare la Expo di Milano, attraversando quei meravigliosi padiglioni, possa percepire la presenza di quei volti. Una presenza nascosta, ma che in realtà dev’esserela vera protagonista dell’evento: i volti degli uomini e delle donne che hanno fame, e che si ammalano, e persino muoiono, per un’alimentazione troppo carente o nociva. (QUI)

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La “presenza nascosta” e il volto da cui partire, il volto da custodire e da “percepire”, il vero “protagonista dell’evento” deve essere quella “degli uomini e delle donne che hanno fame”.

Matteo 25 docet, nell’affamato vediamo il Signore. Il Papa sicuramente saprà dedicare parole di fuoco fra poco più di un mese, quando si troverà faccia faccia davanti al volto della Sindone.

Sta di fatto che il sottoscritto, andando per padiglioni Expo, dovrà pensare a chi ha fame. E non perché negli affamati patisce Cristo, ma per gli affamati in quanto tali – così almeno si interpreta dalle parole del Pontefice prese in se stesse.

Vorrei deprimermi, ma mi consolo per tre motivi.

Primo, almeno non si è limitato ad una telefonata.

Secondo, le alternative a Francesco sono tutte peggiori, come documenta il degrado della Loggia nel suo nuovo Gran Maestro.

Terzo, a fronte delle chiacchiere di circostanza, ci sono pur sempre nel mondo studiosi e dati per nutrire non solo il corpo, ma anche la mente (quanto allo spirito, per oggi soprassediamo).

Come Socci su Libero (QUI), che ci rimanda allo studio puntuale dell’agronomo Luigi Mariani e con esso illustra un modo meno retorico e più verificabile circa la questione:

1. al contrario di quanto quasi tutti vanno in questi anni dicendoci, il clima non si è fatto più proibitivo per fare agricoltura, in quanto un clima più proibitivo non consentirebbe di garantire gli incrementi di resa cui stiamo tuttoggi assistendo.
2. le periodiche intemperanze del tempo atmosferico (siccità, piovosità eccessiva, gelo, ecc.) sono ampiamente controbilanciate dai maggiori livelli di CO2 e dalla sempre migliore tecnologia umana (in termini di nuove varietà, concimazioni, irrigazioni, trattamenti fitosanitari, diserbi, tecniche conservazione dei prodotti, ecc.), la quale garantisce un sempre più efficace adattamento alla variabilità climatica.
3. se la tecnologia ci sta dando oggi questi risultati è nostro dovere cercare di estenderla anche nelle aree del pianeta che ancora non ne godono, in modo da estendere all’intera popolazione mondiale quella sicurezza alimentare di cui oggi, secondo dati FAO, gode l’89% della popolazione mondiale stessa (mentre nel 1970 ne godeva solo il 63% e nel 1950 meno del 50%).
Questi dati consentono a mio avviso un ragionevole ottimismo circa la nostra capacità di adattamento, capacità che costituisce uno degli attributi più importanti della “civiltà”, in base alla frase dello storico Emmanuel Leroy Ladurie secondo cui la civiltà è da un certo punto di vista da intendere come l’insieme di sistemi messi appunto dall’uomo per combattere la dittatura del clima. (QUI)

Un salto al di qua di qualsivoglia catto-comunismo o neo-malthusianismo, il che non è poco. Chissà, magari il sito di Mariani può essere una buona alternativa a tante balle, genericismi o anche solo frasi di circostanza. Segniamocelo: agrariansciences.blogspot.it.

Tornando alla mamma, che si preoccupi di prepararmi dei buoni cannelloni domenica ventura, sono il suo miglior contributo all’Expo: “nutrire la famiglia”; i discorsi su politici e pontefici lasciamoci al web e alle altre istituzioni farisaiche.

La Croce di Satiricus

Apparso su Campari & De Maistre

Non ce la faccio più, non tollero più di esser trattato da utile idiota, con argomenti fatui e lacunosi, con totale assenza di auto-critica, con sicumera ottusa e con una superficialità che solo gli intellettualisti possono permettersi. Sembra di sentire gli eurocrati con ministri mai votati al seguito “la crisi è passata, state tranquilli”; sembra l’untuosità sorniona dello stesso Scalfarotto “il mio ddl non vi darà problemi, state tranquilli”. Peccato che qui si tratti di La Croce Quotidiano, dove fin dal primo numero hanno scelto di trattare così il lettore in materia di cattolicismi, puntando evidentemente sul fatto di avere a che fare con un target di destinatari totalmente sprovvisti di conoscenze in merito. Lo dico con totale nausea, ma anche col diritto del cliente, di quello che ci mette i soldi e la faccia per diffondere tra conoscenti e amici il doppio foglio di Marione, formidabile grimaldello sui temi caldi della laicità. Lo dico dagli inizi e qui lo ribadisco: onore agli arditi de La Croce, i redattori che fecero l’impresa. Onore al grande sforzo, alla passione, al coraggio, allo studio, al servizio di questa equipe piacevolissima, soprattutto perché nata dal basso. Sempre più intollerabili stanno divenendo invece i palchetti di Marcotullio – eh già, è a lui che vanno i miei disappunti – roba che quasi rimpiango il normalismo aplomb di Introvigne o il papalisimo anodino di Invernizzi su La Roccia. Qualunquismo mascherato da professionalità, è il mio giudizio personale (un bel po’ calcato: me ne scuso, ma fa parte del mio personaggio). Un qualunquismo pericoloso, sebbene limitato ai temi vaticani, perché in tutto simile a chi sbeffeggia le veglie delle Sentinelle, i Congressi regionali, le bandiere giganti nelle piazze ed in generale tutta la militanza critica pro-life, in quanto espressione eccessivamente allertata di compulsivismo bigotto e conservatore (quasi “essenzialista” in materia bioetica – cfr. più sotto): insomma roba che ti attenderesti dal circolo LGBT o dall’ACLI di quartiere, non da La Croce Quotidiano.

Non dico certo di buttarsi sulla spietata linea Socci (troppo caustico); non pretendo nemmeno di dar spazio all’intelligentissimo e prudentissimo Messori (troppo fine); mi andrebbe bene una posizione che si limitasse a presentare i lati più ortodossi del Magistero ufficiale attuale, smontando le strumentalizzazioni mediatiche su Francesco e sgonfiando il clamore di alcune sue comunicazioni atipiche: questo in effetti serve al cattolico medio, aderente alla battaglia contro i falsi miti di progresso. Per meno di questo, però, non sono disposto a proseguire nella diffusione della Croce. E invece il “meno” lo si tocca e lo si è toccato. Un episodio per tutti. Il 17 marzo Marcotullio se n’è uscito con il riciclo di un’intervista della Stampa a Dianich per un resoconto che bollerei, rendendo addirittura onorifica la critica, come leibniziano. “Chi guarda al Sinodo dell’ottobre venturo con apprensione sembra ignorare la storia della Chiesa”. Udite udite: l’eurozona non è un problema, Scalfarotto non è un problema e la bagarre sinodale sulla famiglia e i sacramenti non è un problema. Viviamo nella migliore delle Chiese possibili, perfetta addirittura, in cui non si ha da temere nulla. Qualcuno profetizza un nuovo terremoto di Lisbona? Una defezione nella fede ecclesiale? Catastrofista! I terremoti sono roba da Medioevo – o qualcosa di simile. Dianich è un esperto, lui ha studiato e sa che non rischiamo nulla, la Chiesa procede sicura, avvezza a dibattiti. “Tutta la storia del cristianesimo è anche la storia di un grande confronto”. Ogni tanto qualcuno muore bastonato “dai suoi monaci”, ma anche questo non è di interesse, tanto più che tale sorte probabilmente non toccherà né a Dianich né a Marcotullio.

Anche io ho studiato, non tanto come Dianich, ma ho studiato, addirittura ho studiato libri e articoli di Dianich, e mi consta che negli ultimi cinquecento anni, a fronte di una Chiesa dottrinalmente salda (sulla carta – carta peraltro ampiamente contestata dai teologi più applauditi), abbiamo perso milioni di fedeli, rastrellati di secolo in secolo dalle ondate prima protestanti, poi illuministiche, poi comuniste ed ora nichiliste (sto semplificando, però in linea di massima tengo dietro alla Spe Salvi di Benedetto XVI). E poi, ardisco precisare, non solo la storia della Chiesa, ma la storia dell’umanità è “la storia di un grande confronto”, apocalittico addirittura, o non fu un grande confronto la Seconda Guerra Mondiale? O non si dice – per usare provocazioni meno gratuite – che le Crociate coi loro laghi di sangue sono state occasione di un grande scambio culturale tra europei ed arabi? Per cominciare dunque mi accontenterei di sottrarre alla banalizzazione irresponsabile questo primo punto, stando peraltro assolutamente al di qua di qualsivoglia critica al Romano Pontefice (così anche i fedelissimi della Croce possono leggere senza scandalo): rendiamoci conto che la Chiesa non è solo il balconcino di San Pietro e il rotocalco degli Acta Apostolicae Sedis; il dramma annusato da taluni insomma non concerne direttamente od esclusivamente la possibilità di stravolgimenti magisteriali o cedimenti pontifici, di documenti discutibili o prassi svecchiate, ma tiene conto del dissesto nel popolo, del tracollo nella vita cristiana ordinaria e nelle vocazioni sia speciali che familiari. Gli scontri, per quanto possano attendersi finali idillici nei sacri palazzi, costano sempre in termini di vittime sul campo, e la mancanza di preveggenza strategica può costar cara ai poveracci della prima linea.

Non basta, di colpo si passa dal tratto consolatorio in perfetto stile Don Raffae’ al pindarismo teologico più estremo. “La presunzione degli essenzialisti sta in questa riduzione del cammino della fede a un procedimento logico”. Chi sarebbero gli essenzialisti? Quelli che difendono la realtà della Eucaristia? Quelli che non trasformano la Comunione in un palliativo psicologico per coppie in crisi e famiglie arcobaleno? Non si capisce. Del resto tale approfondimento supera il livello medio-basso delle riflessioni teologiche ammesse sulla Croce. E allora, proprio per la scelta programmatica di mantenersi ad un tenore di vaticanismo mediocre, paternalistico, pedagogicamente a-problematizzante, divulgativo, non si potrebbe lasciare del tutto esclusi certi temi specifici? È pure in contraddizione con la retorica autobiografica adinolfiana del peccatore recidivo in missione pro-life questa posa catara e innocentista, costruita sul mito di un cattolicesimo tradizionale ignorante e cupo, incline a vedere problemi dappertutto, prigioniero di schemi mentali idioti, così analfabeta da fraintendere sistematicamente tutte le cristalline dichiarazioni di Francesco. Tutto bene, signori lettori, dite il rosario e andate avanti, prenotatevi per il Palalottomatica, alla Chiesa ci pensa lo Spirito Santo (e alla famiglia no? Gli serviamo noi coi pullman da tutta Italia?). Storico e sovente accusato di essenzialismo è – concedetemi un esempio scomodo – Roberto De Mattei, le sue posizioni di militanza culturale possono dispiacere (io non le condivido), il suo lavoro di ricerca sul Concilio Vaticano Secondo può non essere ratificato in tutti i dettagli e nei giudizi conclusivi, ma in esso si mostra come anche il Concilio sia stato teatro di gravi e meschini scontri tra prelati, si documenta che alcune sensibili decisioni dei pontefici sono state influenzate da tali trame, e che il Popolo di Dio ne ha risentito: tutto ciò è innegabile, senza con ciò dover ratificare l’implosione della Chiesa e la fine del Papato. Davanti a bassezze degne di un romanzo della Mazzucco l’innocentismo è peccato, “la fede e la preghiera” chiedono anche astuzia e combattività. È eccessivo scrivere questo su La Croce? Lo è, La Croce si rivolge al popolino dei cristiani semplici, veloci allo scandalo; ma è davvero troppo chiedere, non dico la critica intelligente libera e coraggiosa (tipo Messori, che è l’equivalente di Adinolfi in tema di vaticanerie), ma almeno un rabbonimento che non scada nel ridicolo e nella beffa? E’ troppo chiedere che la consolazione del popolino – affatto digiuno di “essenzialismi” – non passi per l’irrisione di punti teoreticamente complessi, facilmente impugnabili dagli stessi teologi di grido (i teologi scomodi non durano molti anni sulle loro poltrone, teologo Ratzinger docet), comodi solo alla autoreferenzialità del redattore? Tiriamo le fila: che alla fin fine, all’indomani del Sinodo in arrivo, sul Catechismo non appariranno stampate eresie possiamo esser d’accordo nella fede (lo scrivo fingendo di non ricordare il Catechismo Olandese, per quanto non ufficiale, e le relative prefazioni di elogio compilate da teologi né “essenzialisti” né “irenisti”, autentici dianichiani ante litteram). Che sia impossibile la defezione di un Papa eretico, non è serio dirlo ma non è tema da quotidiano popolare. Che si riveli semplice a priori la difesa della fede da parte di Francesco e che il prossimo Sinodo possa correr via liscio, va contro ogni ragionevole previsione storica alla luce delle cronache (ma Marcotullio potrà scegliere di scommettere sull’esito, forte – perché no? – dei consigli pokeristici del suo Direttore). Che il Sinodo straordinario abbia invece già rivelato posizioni materialmente eretiche sia di vari prelati, sia nella prassi di tanto basso clero, sia nel credo di non pochi fedeli è innegabile.
Tralascio altri affondi teologici, ormai sconfortato dalla provata ipocrisia degli ecclesiastici, che contestano con sicumera il Magistero passato, ma si trasformano in pudichi lacchè al cospetto dell’attuale Regnante, che fanno le pulci in aula con certosina minuzia ad almeno 11 secoli di storia della Chiesa, ma poi normalizzano i dissesti del tempo presente elargendo interviste trionfalistiche ad hoc. Curiosa però la dichiarazione sulla prospettiva di studio dell’ecclesiologo intervistato, la quale “non si è orientata verso un’ermeneutica della frattura, né per questo ha rinunciato a mettere in luce le reali e profonde innovazioni”. L’eremeneutica o è della continuità o non lo è, dire “né per questo ha rinunciato” non ha molto senso, si annovera ben che vada tra le chimere e retoriche utili a raggirare la questione o a dimostrarsi ignoranti in materia. Che Benedetto XVI su questa benedetta ermeneutica si sia speso dal 2005 fino all’ultimo discorso prima del congedo non suggerisce proprio nulla a nessuno? Nemmeno a chi ha studiato molto?

Lasciamo perdere e andiamo ad una frase in chiusura dell’articolo che è tutto un programma: “Quanto più la fede è robusta tanto più possiamo permetterci di discutere e di litigare, sicuri che la grazia di Dio ci manterrà nella fede”. Già, chissà che non stia qui il problema, e sì che Francesco ha preso il timone della Chiesa proprio nell’Anno della Fede. Qual è il gioco? I papi indicono anni speciali per riempire la noia delle loro giornate romane? O non era quell’anno, curiosamente corrispondente agli anniversari del Vaticanosecondo e del Catechismo, indice di una crisi fiacca, sempre più fiacca, tutto fuorché sicura o scontata? E sia, sono valutazioni che si giudicano da sé. Ribadisco, forse il popolo di Adinolfi può accontentarsi di un livello di formazione religiosa medio-bassa, quasi stupida, alimentata da mezze notizie gestite opportunisticamente, l’importante è che siano risoluti nel firmare Referendum e nel sentinellare in silenzio, nel far pienone ai convegni contro i falsi miti di progresso e nel creare comitati di sensibilizzazione pro-life locali. Cose sante, che in effetti possono convivere benissimo con la mediocrità della formazione cattolica e con un servilismo funzionale allo spirito di corpo. Il tutto peraltro viene benissimo compensato dal messaggino mensile di Medjugorie. E voglio appunto congedarmi lanciando una sfida in tema. Provate a interrogare i vostri conoscenti, lettori della Croce, ascoltatori di Radio Maria, fedelissimi di Papa Francesco, devoti di Medjugorie, provate a metterli spalle al muro: dovessero scegliere tra Medjugorie e Francesco, che farebbero? Io ci ho provato ed ho fatto scoperte mirabolanti. Ho scoperto che la Chiesa è piena di normalisti che si spacciano devoti di Francesco, solo perché lo ignorano crassamente quando gli fa comodo, per esempio nella devozione a Medjugorie. “Il Papa – testuali parole – non può opporsi alla Madonna”, così un capo-gruppo locale attivissimo nella causa pro-life. Ho capito tutto: non c’è niente da capire.
E con tutto questo il sottoscritto compra La Croce, va a Medjugorie, obbedisce al Papa, dà spazio ai ragionevoli dubbi e prega e teme per l’esito della fede fragile della Chiesa. Anche Dio ne sembra preoccupato, a giudicare dalla marea di martiri che ci sta donando. Ma il Dianich di Marcotullio è tranquillo, lui ha studiato che tanto i martiri ci sono da sempre.